di DANIELE DOTTORINI
La retrospettiva Red Diamonds al 62° Festival dei Popoli.
Un giorno non comune, il 26 dicembre 1991: al culmine di un lungo processo di lotte politiche e tentativi di riforma, l’Unione Sovietica cessa formalmente di esistere. L’atto formale non deve ingannare: il potere simbolico di quell’evento, il suo impatto è enorme, proprio perché proporzionale a ciò che l’Unione Sovietica ha rappresentato per l’immaginario mondiale lungo tutto il XX secolo. Un evento epocale, che come tale traccia un solco, necessita di nuove parole, nuove immagini, perché quelle del passato non sono più in grado di raccontarlo, di vederlo, di interpretarlo. Sono passati esattamente trent’anni da quell’evento, e lo sguardo retrospettivo può ora riattraversare il flusso delle immagini, lo spazio del visibile, alla ricerca degli sguardi che hanno anticipato, accompagnato e ripensato quell’era di passaggio e metamorfosi, che non ha riguardato solo la Russia e le Ex-repubbliche sovietiche, ma il mondo intero.
La retrospettiva Red Diamonds, all’interno del 62° Festival dei Popoli, riattraversa questo momento, incrociando visioni diverse, da quelle della vita quotidiana a quelle di un mondo in crisi, dall’utopia di un paradiso in terra al mito di un cinema che è sempre stato molto più che espressione di una propaganda. Si incontreranno allora le pratiche del montaggio di Artavadz Pelešjan in Il nostro secolo (1982), un film che è anzitutto un ritorno all’origine, a quel lavoro di rimontaggio di materiale d’archivio che aveva fatto conoscere il regista in tutto il mondo con il suo film d’esordio, L’inizio (1967). In secondo luogo il lavoro è caratterizzato da un montaggio sottilmente tragico, in cui i filmati delle imprese spaziali sovietiche sono alternate a immagini di disastri aerei che hanno caratterizzato la storia della tecnologia di viaggio lungo tutto il XX secolo. La forza simbolica del volo, il sogno dello spazio si mostrano però qui prevaricanti. Il montaggio straordinario di Pelesjian crea, man mano che il film va avanti, l’immagine di un desiderio inarrestabile, che fa del viaggio nello spazio, nelle immagini del nostro pianeta riprese dall’interno di un razzo, nei volti degli astronauti l’emblema di una esperienza radicale, di una potenza di essere che non può essere fermata, anche se questa impresa contiene in sé una storia oscura, fatta di disastri e morti, di sogni infranti e di dolore.
Ad esse si affianca la visione lirica e lucida di Aleksandr Sokurov in Elegia sovietica (1989), che si pone all’interno di quella riflessione sul potere che caratterizza una buona parte del suo cinema. Una riflessione che in questo caso assume la forma dell’elegia, del canto funebre per un sistema politico che nel 1990 è sul punto di crollare. Non un saggio politico, ma una riflessione lirica, fatta di spazi svuotati, di ritratti ingialliti dei membri del Politburo (tra cui quello di Michail Gorbačëv), delle immagini di Boris E’lcin solo di fronte ad un televisore. Le immagini si susseguono, misteriose eppure lucide, evidenti nella loro freddezza. La storia sembra congelata. Il film si presenta infatti come la composizione di un tempo sospeso, in cui la storia sembra fermarsi, un attimo prima della fine. È in questa sospensione che sta il fascino di un film che non presenta tesi né commenti, ma che rende ogni immagine poetica e politica, straordinario presagio di ciò che sarebbe accaduto pochi mesi dopo.
Altrettanto potente è lo sguardo realista e poetico di Viktor Kossakovsky sul mondo contadino. In Belovj (1992) il ritratto di una famiglia contadina, in un bruciante bianco e nero, ci porta direttamente nel cuore di un mondo vivo e contraddittorio, fatto di visioni opposte della vita, rappresentate da Anna e da suo fratello Michail, che vivono in un remoto villaggio della Russia rurale. Se quello di Anna è il ritratto di una vita fatta di sofferenza, contro la quale lottare ogni giorno, quello di Michail è il ritratto di un uomo disincantato la cui visione del mondo è alimentata dalla vodka e dal suo ironico scetticismo. Mentre la donna lavora e mantiene l’ordine della casa, Michail passa il tempo seduto a bere e a filosofare sulla vita e sul mondo. Due sguardi che muovono il film verso un versante malinconico e comico a tempo stesso, come durante le riunioni di famiglia, in cui le discussioni diventano scontri tra immagini del mondo.
È lungo questa linea che si colloca l’attenzione ai gesti quotidiani di persone che lottano quotidianamente per la loro vita nel cinema di Sergej Dvortsevoj che in Schastye (1996) esplora la vita quotidiana di una famiglia di pastori, con una attenzione rigorosa e intima per i gesti quotidiani, per le pratiche di vita. Su tutto il rapporto tra i corpi e lo spazio, le enormi pianure, le montagne sullo sfondo, gli uomini che sembrano quasi schiacciati dalla natura. Giocando tra vicinanza e lontananza della macchina da presa, il film restituisce un respiro antico, un ritmo di vita immensamente lontano da quello della modernità, eppure presente, contemporaneo. Lo sguardo osserva senza parlare, quasi fosse la rivelazione primaria di esistenze estreme. Ogni gesto appare antico e nuovo; eredità di una tradizione antica e gesto colto qui e ora dal cinema.
I ritratti di persone sconosciute, spesso ai margini della vita frenetica delle città caratterizzano Odna (1999). Nel suo unico film da regista, Dmitry Kabakov realizza uno straordinario film-apologo sulla storia del XX secolo in Russia attraverso un personaggio, una anziana donna che ogni giorno da diciassette anni, prende un treno per recarsi, con una piccola sporta e una sacca, nei boschi limitrofi. Un gesto ripetuto, apparentemente minimo, che diventa potentissimo, una scelta di cinema. La donna è piegata dalla vita, cammina lentamente e passa quasi inosservata tra la folla. La macchina da presa la segue e il suo cammino è alternato a folgoranti immagini di repertorio in cui la storia di una vita e la storia di una collettività emergono in tutta la loro flagranza. La poesia malinconica di un gesto diventa allora l’immagine di un popolo, che nel bianco e nero tragico del film emerge come una storia di passioni e di sofferenza, di epoche turbolente e di ricerca incessante di felicità.
La passione del cinema, l’intensità di uno sguardo cinematografico e politico rivivono in Larisa (1980), l’omaggio struggente di Elem Klimov alla sua compagna Larisa Shepitko e all’idea di un nuovo cinema sovietico. Un anno dopo la morte della sua compagna Klimov realizza questo film, un racconto appassionato e intenso di Shepitko, della sua opera, della sua idea di cinema. Aperto dal volto di Klimov che introduce il film accanto ad un albero, il film è un racconto personale, non distaccato né obiettivo del percorso della sua compagna. Dalla scuola di cinema a Mosca con Aleksandr Dovzenko, da cui la giovane regista apprende la necessità di filmare in libertà, alle opere che l’hanno resa celebre, Calura (1963), Ty i ya (1971) e soprattutto il suo capolavoro, Ascensione (1977). Le immagini dei suoi film o del lavoro sul set si alternano alla sua voce, alle voci delle persone che l’hanno conosciuta, che hanno lavorato con lei. Un ritratto colmo d’amore, che diventa anche un ritratto di un’epoca aperta e libera del cinema sovietico, in cui il film riprendeva ad essere uno sguardo sul reale e al contempo uno spazio di sperimentazione di forme e linguaggi.
Ma il percorso continua, e rivela immagini da scoprire, sguardi da riattraversare, prospettive diversissime. È qui che si incontra il movimento inquieto e frenetico di una generazione che anela una vita differente in un regista straordinario, morto troppo presto e assolutamente da riscoprire come Juris Podnieks in Is it Easy to be Young? (1986) in cui i turbamenti di una generazione riflettono la fragilità di un ideale che sembra sempre più lontano dall’orizzonte delle esistenze. Infine, è la memoria del cinema ad affacciarsi, con sguardo postumo, nell’ultima opera di uno dei registi più significativi del panorama contemporaneo, Bill Morrison, che in The Village Detective: a Song Cycle (2021), a partire dalla pellicola di un film sovietico ritrovata quasi intatta dal relitto di una nave affondata decenni fa, ricostruisce la storia di un attore attraverso i suoi film, in un montaggio che è segno del tempo, nel senso che appare nella fragilità di una pellicola rovinata e si mostra fiammante e sul punto di dissolversi.
Sguardi diversi dunque, in cui la visione collettiva si alterna al dettaglio di una singola vita, in cui il passato e il presente si incrociano, ma sguardi accomunati tutti dall’urgenza di restituire un’immagine complessa di un mondo e delle sue immagini, a ulteriore riprova di un cinema tutt’altro che monolitico, chiamato a cercare le molteplici immagini di un evento in atto, o di interrogarne le tracce.