La regina degli scacchi è l’ultima serie Netflix di grande successo. È la storia di una giovane donna americana che, tra gli anni ’50 e ’60 del ’900, fa degli scacchi la sua ragione di vita. Sono anni di battaglie per i diritti delle donne, per l’integrazione dei neri, di culture giovanili, di boom economico, dell’affacciarsi delle droghe e delle dipendenze sulla scena sociale. E sono anni in cui gli scacchi conquistano grande attenzione, come soggetto letterario e cinematografico, come pratica di gioco, come campo di sfide geopolitiche, nel mondo dei due blocchi, statunitense e sovietico.

Tuttavia, la storia della protagonista, Beth Harmon, è quasi avulsa da quel contesto. È il racconto della vita di una ventenne che sembra fluttuare disincantata in quell’epoca, come se non fosse la sua. La serie appare infatti sgravata dalla necessità di raccontare un momento storico con le sue istanze. Uno degli elementi centrali della vicenda, per esempio, è che Beth si misura con un universo in prevalenza al maschile (tanto che incontrerà solo una avversaria donna nella sua carriera, a un torneo per principianti). Tuttavia, ciò non implica per lei problemi di riconoscimento, o di integrazione. Beth non vive esperienze come quelle della campionessa Judit Polgar, che in una recente intervista al “New York Times” ha raccontato di aver incontrato uomini che non esitavano a esprimere disprezzo verso le giocatrici. Beth riesce, invece, ad avere rapporti di stima e solidarietà, di amicizia, di sesso, senza la trappola dei cliché sessisti.

La regina degli scacchi attraversa gli anni sessanta come se la questione dell’emancipazione fosse superata, come se la cultura della differenza tra uomo e donna non fosse così radicata nella società americana di quel periodo, o nel mondo degli scacchi. Rispetto al modo in cui la serie tratta questi aspetti, sono paradigmatiche alcune frasi del film, come quando la mamma, da piccola, le dice: Gli uomini penseranno di essere superiori a te, ma questo non li rende più intelligenti. Non dargli troppo peso e cerca di fare sempre e solo ciò che senti. O quando una giornalista le chiede: Può rivelare ai lettori di Life com’è essere una ragazza in mezzo a soli uomini?, e Beth risponde con fermezza quasi ingenua: Non è un problema. O questo scambio con la mamma adottiva:

B. Tornerò tardi, domani, ho da fare dopo scuola.
M. Fai parte di un club?
B. Giocherò al torneo di scacchi.
M. Sono d’accordo che ampliare la propria vita sociale sia importante, ma mi chiedo se forse per fare nuove amicizie sia più adatta la danza, o un club per ragazze?
B. Quando aveva la mia età lei cosa faceva per la sua vita sociale? [alludendo alla passione per il pianoforte che la madre adottiva aveva coltivato da ragazza].

In fin dei conti, la Harmon ha un obiettivo, o forse un sogno, e non trova ostacoli nell’essere donna, o nel dover sfidare uomini. Il suo problema è di competenza. Una competenza che Beth allena fin da bambina, quando, priva di una scacchiera, gioca con scacchi giganti proiettati sul soffitto, in immagini oniriche, e che consolida con studio ed esercizi continui. Il rigore del metodo come presupposto nella dignità. Gli scacchi sono la passione che tiene Beth incatenata alla vita e la rende protagonista di quella pratica infinita di mosse che sedimenta di giocatore in giocatore, a cui ciascuno contribuisce con il proprio talento e che, però, è un rito in sé. Qualcosa che Borges, tra i letterati più sensibili agli scacchi, tradusse con questi versi:

Nel loro angolo grave, i giocatori
dirigono i lenti pezzi. La scacchiera
li trattiene fino all’alba nel suo severo
ambito in cui si odiano due colori.
Dentro, irraggiano magici rigori
le forme: torre omerica, svelto
cavallo, armata regina, re ultimo,
obliquo alfiere e pedoni aggressori.
Quando i giocatori se ne saranno andati,
quando il tempo li avrà consumati,
certamente non sarà cessato il rito (Borges 2016).

Un rito perpetuo, indipendente dagli stessi giocatori, come una realtà sui generis, sono gli scacchi per Borges; e per Beth, per la quale esiste tutto un mondo in quelle 64 case e non c’è solo la competizione. Gli scacchi possono essere meravigliosi. Eppure, La regina degli scacchi, per quanto ne descriva con accuratezza il mondo, non è una storia degli scacchi. Certo, le ricostruzioni del gioco, delle tecniche, delle principali mosse, dei giocatori più famosi sono precise e realistiche. Tuttavia la serie costruisce un altro tipo di pseudo ambiente. La regina degli scacchi è un viaggio di formazione. Sullo sfondo delle vicende, spiccano i tendaggi, le auto dell’epoca, le carte da parati a quadri, le t-shirt da beat generation, i cappottini eleganti e le scarpe bicolore delle collegiali statunitensi. Ma questi oggetti sono solo i pezzi di un set privato. E nessuna eco vi risuona della storia dell’epoca.

Anche l’accenno alle relazioni internazionali tra USA e URSS (evocate nella finale con il russo Vasily Borgov, in cui qualche esperto coglie il riferimento alla sfida Fisher-Spassky del 1972 e al suo valore simbolico nel mondo della guerra fredda) significa poco per chi non è a conoscenza di quegli avvenimenti. Così, malgrado la meticolosa scenografia del contesto, l’immaginario sociale del periodo sfuma nell’immaginario esistenziale della protagonista. La regina degli scacchi si configura come una teca di ricordi oggettivati, di oggetti ricordati, ma non esattamente di fatti da ricordare ancora. È un film ambientato in un’epoca seducente, che ne trascende, tuttavia, il racconto e con esso la potenziale memorabilità storica. La vicenda dei sessanta, tradotta nella sua estetica, è come offerta, insieme alla storia del mondo scacchista, a una nuova retorica, del post-ideologico, del post-conflittuale. E non vi è malinconia, niente di simile a quella malinconia che secondo Traverso (2016) può essere stimolo per una memoria consapevole delle potenzialità del passato.

Su tutto prevale, invece, un’altra dimensione di valore, quella degli affetti, dei legami personali e solidali, con gli amici e con la madre adottiva, ancore dell’identità e salvezza nel mondo. Una dimensione di rapporti profondi e intimi che può fare immedesimare nella storia di Beth anche una ventenne di oggi. Un mondo di persone capace di riempire la sua biografia, le sue “case”; figure preziose, con una posizione strategica nella sua esistenza, che proprio come re, alfieri e cavalli la sostengono nelle sue più importanti partite, a scacchi e con la vita. Le stesse colonne sonore, alcune legate a quegli anni, altre completamente riscritte, più che puntellare in senso storiografico le vicende sembrano chiamate a disegnare un’atmosfera odierna. Così, anche la musica perde la sua funzione di madeleine, per divenire ancella di nuovi spazi di esperienza contemporanea, di altri confini tra gli anni sessanta e il presente che di certe tappe si è appropriato proponendone un superamento mnestico.

D’altro canto, in questo panorama è interessante notare lo scacco matto che La regina degli scacchi fa ai luoghi comuni e agli stereotipi che contribuiscono alla semantica dell’altro. Lo stereotipo dell’orfana perdente, riscritto attraverso il disegno di un profilo di donna fiera e capace di muoversi nei diversi contesti sociali in cui si trova, dall’orfanotrofio alla scuola borghese fino ai tornei scacchisti. Quello della droga, o della pazzia, come esperienze che consegnano identità da cui è impossibile uscire. O del rapporto con l’altro sesso, come orientato solo alla relazione di coppia, o come limite alla realizzazione di sé. Dell’uomo come unico sostegno economico della famiglia. Del divorzio come condizione di fragilità familiare. Ma anche lo stereotipo dell’amore materno, incondizionato, messo in discussione dal suicidio della madre, che la stava portando a morire con sé. Infine, lo stereotipo della famiglia come appartenenza basata su legami di sangue, superato dal bel rapporto affettivo con la madre adottiva e con la sua migliore amica, sorella. La storia di Beth rappresenta un controcanto dell’alterità. E gli scacchi sono il contesto che realizza il superamento della grande narrazione delle differenze – di cultura, di classe, di genere, geopolitiche. Differenze che non sono negate, ma che non sono percepite come ostacoli nello svolgersi della vita di ognuno.

Con La regina degli scacchi cade anche la metafora del bene e del male, che gli scacchi sono stati a lungo condannati a convalidare, nella letteratura e nel cinema. Si pensi a La variante di Lüneburg (Maurensig, 1993), dove a scacchi ci si gioca la vita, o al Il settimo sigillo (Bergman, 1957), dove la partita a scacchi è con la morte, o ancora a Dalla Russia con amore (Young, 1963), dove lo scacchista è il cattivo della famosa Spectre. Giocando a scacchi con Beth questo immaginario si dissolve. Gli scacchi non sono il campo di battaglia per la parità, o per sconfiggere un nemico, ma un gioco ad armi pari, dove chiunque vi partecipi può mettere in campo la sua umanità e contribuire alla grande partita, dal burbero custode, il sig. Shaibel, alla madre adottiva, Alma Wheatley, agli amici, fino ai rivali, tutti inizialmente impreparati a comprendere quel desiderio di vita, ma poi elementi essenziale alla sua realizzazione.

Naturalmente, la ricchezza dello sguardo che la serie offre non può essere considerata semplicemente il risultato dell’intuizione di un regista, come Scott Frank, o di un romanziere, come Walter Tevis (1983), per quanto possano essere peculiari i loro punti di vista. La novità del racconto va ricondotta all’universo delle serie, che offre narrazioni specifiche, dai tratti post-cinematografici (Maiello 2020), e dove, se la storia non può fare a meno di un mondo, la serialità costruisce inevitabilmente un altro mondo, aperto, ibrido, dai confini indefiniti e indefinibili. Forse, sono allora proprio le caratteristiche della serialità a consentire che su tutta la narrazione, di puntata in puntata, domini quell’incedere sicuro, quell’attraversamento orizzontale e diagonale di Beth che, come mossa da un mouse, o come in un videogioco, si fa regina dello spazio e del tempo, capace di prendere posa all’infinito, velocemente, in una nuova sala, in una nuova sfida, in un nuova “casa”. Fino all’ultima scena, quando, dopo la vittoria, si risiede a un tavolino da scacchi, per strada, di fronte all’uomo comune, e ricomincia a giocare, regina di bianco vestita di una umanità senza spazio e senza tempo.

Riferimenti bibliografici
J.L. Borges, Scacchi, in Id., Poesie (1923-1976). Scelte da Borges, BUR-Rizzoli, Milano 2016.

A. Maiello, Mondi in serie. L’epoca postmediale delle serie TV, Pellegrini, Cosenza 2020.
E. Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli, Milano 2016.

La regina degli scacchi. Ideazione: Scott Frank e Allan Scott; interpreti: Anya Taylor-Joy, Bill Camp, Marielle Heller, Harry Melling, Thomas Brodie-Sangster; produzione: Flitcraft Ltd, Wonderful Films; origine: USA; anno: 2020.

Share