A mio padre
La casistica di adattamenti tristemente semplificatori o svianti di titoli evocativi nella versione originale include molteplici esempi. A questo rigoglioso parterre non sfugge la trasposizione scelta in italiano per la miniserie Netflix The Queen’s Gambit, nel nostro paese divenuta La regina degli scacchi (la scelta era già stata compiuta, a onor del vero, con il romanzo di Walter Tevis del 1983 dal quale la serie è stata tratta). Il titolo italiano è un mix banalizzante che riesce a non rendere merito né al fulcro reale della serie – ovvero al gioco degli scacchi in sé – né alla (nobile) arte del tradurre. La traduzione letterale del titolo inglese è “Il Gambetto di Regina” (o “Il Gambetto di Donna”), una mossa di apertura del gioco degli scacchi di attestazione molto antica, dalla quale si evince anche tutta la centralità strategica della Regina, la figura femminile di spicco.
Il dualismo di questo Re da difendere e di questa Regina così audace, spericolata, poliedrica nelle sue possibilità di spostamento, da bambina m’impressionava molto. Un gioco complesso ma anche in apparenza schematico, un campo di battaglia nel quale tutto sembra logicamente controllabile – quadrati, bianco, nero, rette verticali e orizzontali – diventava sovversivo non appena s’imparavano le regole di base costruite attorno a questa coppia reale così impunemente impari: una Regina libera nelle mosse e un Re piuttosto imbalsamato, pur nella sua inarrivabile importanza. Mi piaceva, da bambina, la presenza rilevante della Regina: era il Re quello attorno a cui ruotava il gioco, è vero, ma il vero pezzo mobile e guerreggiante era lei, la Regina con la sua imprevedibilità di movimento.
Le qualità della miniserie Netflix sono diverse: una messa in scena ingegnosamente scenografica delle partite a scacchi – sia di quelle reali sia di quelle che avvengono nella psichedelica mente della protagonista –, la ricostruzione puntigliosa ed elegante del contesto culturale, l’indubitabile bravura dell’attrice principale. Da un punto di vista narrativo, la miniserie ripropone diversi elementi del più classico feuilletton ottocentesco: il tragico incidente della madre, l’orfanotrofio, la solitudine, le peripezie che portano a un lieto fine (la relativa serenità psicologica della protagonista più che le sue vittorie). Ambientata fra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, gli anni della Guerra Fredda, della Rivoluzione culturale del ’68 e dei primi moti di emancipazione delle donne, La regina degli scacchi offre, però, più di quello che sembra, a partire dalla sua protagonista. Oltre a riconoscere la magnetica interpretazione dell’attrice Anya Taylor-Joy, questa serie ci offre un personaggio in piena regola, da romanzo ottocentesco, con l’aggiunta di molta magia dei nostri tempi. In un’impalcatura sostanzialmente classica – le umili origini, il possesso di una specifica qualità morale, fisica o intellettuale che ne permette il riscatto – in Beth Harmon s’innestano varianti che sfuggono a questa versione, rendendo il personaggio molto più cangiante, sorprendente, ammaliante: un personaggio vero, del quale è difficile non subire il fascino per la sua complessità così nitida e sincera.
Come gli scacchi, la narrazione spariglia le carte di questa logica veicolando un senso più alto, profondo e imprevedibile per lo spettatore. La serie ha al centro il racconto dell’affermazione di una giovane donna in un mondo connotato in senso maschile, come al tempo era quello degli scacchi. Ma non è questo, a mio avviso, il suo pregio maggiore. Il valore è nella narrazione di come questa giovane donna si afferma in quel mondo. Beth vince non omologandosi mai, né nel senso della dipendenza né della contro-dipendenza – terreno, spesso, altrettanto scivoloso –, non si omologa alle compagne di scuola tutte trucchi e flirt ma nemmeno agli uomini. Beth vince grazie al proprio talento, un mix di intelligenza, forza e fragilità esistenziale, non rinuncia all’inclinazione per l’alta moda come a quella per l’alcool, per i tagli di capelli come per la cura del proprio cervello. Beth vince con la grazia della creatività e dell’intuizione, contrapponendo a una certa logica un’altra logica: quella della femminilità più piena e feconda perché libera, rispondente solo a se stessa. Beth ubbidisce soltanto alle proprie regole interiori e per questo è sorprendente nella sua mobilità e nelle sue risorse, durante le partite a scacchi come nella vita. Beth vince e risplende grazie a se stessa e gli uomini, lealmente, le riconoscono la sua autentica grandezza. A partire dal custode che le insegna a giocare a scacchi da bambina, fino ai colleghi scacchisti da lei vinti che la aiutano, la amano, la sostengono.
Questo non sminuisce il genio, non erode la bravura, e quanto è più umana e più bella una vittoria così, tinta di solidarietà reciproca? La serie amplia questo concetto a livelli forse esagerati e a volte risibili – persino i complicati rapporti diplomatici e politici tra USA e URRS sembrano dissolversi grazie allo charme della campionessa – ma ben venga una serie in cui la protagonista non s’innamora quasi di nessuno mentre tutti s’innamorano di lei, dove non perde tempo a disperarsi per un amore non corrisposto perché la pila di libri da leggere sugli scacchi aumenta e lei deve anche imparare il russo. In questa narrazione quella dal passato complicato è lei, Beth, e nel suo animo non alberga nessuna “sindrome della crocerossina”, bara del talento di innumerevoli eroine finite nel dimenticatoio: Beth non ha tempo per salvare un uomo perché deve salvare se stessa. Beth ce la fa senza adeguamenti, restando così com’è, tra passi falsi, colpi di genio e assenza di ideologia, compresa l’accoglienza senza indugi del baciamano da parte del campione russo, invitto fino a prima di incontrarla. Questa è la sua lezione, la strategia dell’autenticità di sé.
Il detto secondo cui dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, negli scacchi sembra quanto mai valido: accanto, davanti o dietro al Re vivo e vittorioso, c’è sempre la Regina. Eppure, nella vita, l’aspirazione dovrebbe mirare alla più sincera reciprocità: dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna o, a volte, viceversa.
La regina degli scacchi. Ideazione: Scott Frank e Allan Scott; interpreti: Anya Taylor-Joy, Bill Camp, Marielle Heller, Harry Melling, Thomas Brodie-Sangster; produzione: Flitcraft Ltd, Wonderful Films; origine: USA; anno: 2020.