Un lungo e sinuoso piano sequenza parte dalle finestre illuminate di un caseggiato. Scende sfiorando le vite sconosciute, i volti, le esistenze anonime, i gesti quotidiani che al di là dei vetri testimoniano di vite e singolarità umane. Ognuna potrebbe essere una storia. La macchina da presa continua a percorrere la strada in discesa di una città punteggiata da palazzi di architettura mitteleuropea, dove, come sospinta da un vento che soffia  incessante, accompagna la gente che cammina. Molte ragazze, riprese di spalle. Ragazze senza nome. La camera sembra cercarne qualcuna addossandosi a quei cammini casuali. Poi questa ripresa si fa pedinamento ( in senso zavattiniano), e ne privilegia una sola di quelle ragazze, le mani ficcate nel giubbottino nero e stretto, i jeans sdruciti: si chiama Nadia e scopriremo la sua storia fatta di rabbia, dolore, solitudine ma anche di pertinace resistenza, di un coraggio che si tiene dentro come una riserva di vita e che la salverà.

L’apertura di La ragazza ha volato di Wilma Labate è esemplare, come fosse un viatico stilistico. Quello della Labate è un cinema che trova nell’asciuttezza, nel rigore formale, nell’ascolto e nella cura con cui si rivolge ai personaggi femminili, molto spesso adolescenti, una prerogativa e una cifra. Scegliendo non a caso una città di confine come Trieste la regista sceglie anche di raccontare quel momento di passaggio, quella condizione incerta, piena di inquietudine che è l’adolescenza, ancor più quella femminile. Si tratta della ricerca, anche disperata, di una identità, di una autodeterminazione che conduce all’uscita da una solitudine.

Sono soprattutto gli occhi, neri, puntuti, scontrosi eppure come assetati dalla richiesta di un rapporto umano, affannati dalla ricerca di una via di fuga, ciò che ci resta dentro del volto di Nadia, oltre che una strana voglia rossastra sulla pelle di una tempia  (stupefacente la verità intensa di Alma Noce che sembra vivere il personaggio momento per momento, oltrepassando la mera interpretazione). Ma dentro l’intensità di quello sguardo c’è già tutta la storia del film. Una storia semplice (scritta dalla Labate con i fratelli D’Innocenzo) eppure emblematica di una condizione umana, dell’intimo essere femminile.

Nadia, sedici anni, “quasi diciassette” (come dice lei stessa quasi presa dall’ansia di superare quell’età difficile) conosce un ragazzino suo coetaneo. A lui lei piace molto, l’abborda in un bar dove la ragazza si ferma sempre a comprare le sigarette e il “gratta e vinci”, le chiede di rivedersi. Lei ha un atteggiamento insieme remissivo e chiuso. Forse quel ragazzo piace anche a lei, o forse no. Non lo dice, nemmeno a se stessa. Il non detto e i silenzi del film, tutto costruito per ellissi, sono gli spazi di intensità attorno a cui il racconto si condensa e si scioglie, alternativamente. È il silenzio che lei oppone al ragazzo che la costringe a un rapporto non voluto, dove la protervia e la mancanza di ogni tenerezza in lui schiacciano Nadia in una morsa che la soffoca, le toglie la forza di reagire.

Da questo momento il film diventa una sorta di “ritratto femminile con città”. L’empatia tra Nadia, il suo corpo angoloso e fragile, i suoi occhi invece intensissimi e impenetrabili, si intesse con le forme della città, una Trieste, e la sua periferia, dai colori dilavati, dai toni grigi e malinconici, a testimoniare, come dice la Labate, del clima di «inerzia che tanto pervade oggi le nostre vite». Città stratificata con una forte presenza operaia che si mescola con le tracce balcaniche, e i brandelli dei fasti mitteleuropei. Ma dietro quell’accordo-disaccordo che incarna Nadia nei confronti del mondo “davanti a sé” qualcosa cova, si nasconde, attende di aprirsi alla vita. Quel non so che Nadia nutre come consapevolezza di sé e dove trova la linfa di una forza. Una forza fatta di attenzione e di decisione.

Nadia, rimasta incinta del ragazzo, si tiene il bambino. Nonostante le prudenze perbeniste della famiglia piccolo-borghese, nonostante i condizionamenti  sociali, nonostante tutto e tutti. Folgorante la scena in cui Nadia, che frequenta la classe di un istituto alberghiero, si alza dal banco, costretta dalla gravidanza ad assentarsi dall’aula per andare continuamente in bagno, “offrendo” alla macchina da presa il suo corpo segnato dal ventre gonfio. Una sequenza che ha la “pietas” di una “visitazione” sacra.

L’andamento fenomenologico del racconto, il tocco semplice e intenso, il rapporto tra quotidiano e rivelazione, tra la singolarità di una vita e la pluralità della città, può far pensare al cinema di Olmi. Così come lo “stare accanto” al personaggio e il palpitare della camera con esso ha certamente presente i film dei Dardenne. Ma è un motivo ricorrente nel cinema della Labate, quello della orfanità, del riscatto dalla solitudine, declinato al femminile, cogliendolo nel suo sbocciare, che emerge in La ragazza ha volato, così come emergeva in Domenica (2001), che era il ritratto di una bambina e insieme di una città (in quel caso Napoli) cadenzato come un percorso di formazione e di rivelazione.

Anche qui il cammino di Nadia si svolge, assumendo la presenza di Alma Noce (e la sua intensità) come modello (in senso bressoniano), lungo un percorso di rivelazione, del dischiudersi  di una identità. Nella chiusa del film la gru in verticale che parte dall’appartamento della ragazza con il suo bambino appena nato, e percorre il palazzo e le vite che vi abitano, andando verso l’aperto del cielo, ci appare come una rinascita e un volo. Dal bozzolo in cui si era rinchiusa la ragazza è come se fosse spuntata una farfalla. I suoi occhi hanno messo le ali e lei si è messa a volare.

La ragazza ha volato. Regia: Wilma Labate; sceneggiatura: Damiano D’Innocenzo, Fabio D’Innocenzo, Wilma Labate; fotografia: Sandro Chessa; montaggio: Mario Marrone; scenografia: Flaviano Barbarisi; costumi: Metella Raboni; musiche: Stefano Ratchef, Mattia Carratello; interpreti: Alma Noce, Luka Zunic, Rossana Mortara, Livia Rossi, Massimo Somaglino; produzione: Tralab, Rai Cinema, Nightswim, Staragara Institute; origine: Italia, Slovenia; durata: 93′; anno: 2021.

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