Sono passati cento anni dalla nascita di Gilles Deleuze, e trenta dalla sua morte. Sono anche passati trenta anni da quando per la prima volta ho letto un suo libro, Immagine-tempo (1985), forse l’unico testo di filosofia del cinema in cui non si parla mai di spettatore né di sguardo, ma solo di immagini, di luce, di un “occhio che sta nelle cose” più che collocarsi alla giusta distanza. In un’atmosfera filosofica come quella degli anni novanta, in cui l’estetica era prevalentemente estetica della ricezione, in cui il concetto di opera aperta veniva tradotto come possibilità di infinite proiezioni del lettore, appariva un pensiero in cui la mediazione simbolica e immaginaria voleva essere superata, attraversata. Non si trattava di sostituire all’idea di un soggetto onnipotente quella ingenua di un oggetto indipendente dal suo sguardo – un nuovo realismo il cui esito sarebbe quello di ribadire che “i tavoli esistono” –, ma di far collassare la separazione tra soggetto e oggetto, un compito impossibile come tutti i compiti massimamente necessari. Le molteplici vie di fuga della filosofia deleuziana, intraprese da solo o con Félix Guattari, con Claire Parnet, partono e conducono (e poi ripartono) alla “formula magica pluralismo=monismo”, cioè fanno un passo di lato, scartano, tutte le volte che gli automatismi del pensiero fanno riemergere la tentazione del dualismo. Né soggetto, né oggetto, ma un piano che pullula di singolarità, un piano di immanenza in cui le forme trovano a tratti una consistenza per poi sciogliersi nuovamente nel divenire.

In questo quadro teorico la pratica artistica non è più esercizio soggettivo, attività dell’autore o proiezione del fruitore, e nemmeno produzione di un’opera da indagare analizzandone le singole parti, ma una delle vie dell’immanenza, forse la più frequentabile. Attraversando i simboli e le immagini, non cancellandoli ma trasformandoli, torcendoli, de-funzionalizzandoli, facendone qualcosa di imprevisto e differente, è possibile un contatto vitalizzante ma non distruttivo con le forze, le pulsioni svincolate dalla prigionia della rappresentazione. Tutte le definizioni che descrivono l’arte come studium, esercizio culturale, pacificante e consolatorio cadono di fronte all’idea di arte come divenire-altro, come incontro violento con “una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io”, scrive Deleuze nelle pagine brevi e fulminanti di La letteratura e la vita (1993). È un contatto pericoloso ed esilarante, puntuale e magari veloce, ma che lascia traccia, con l’intensità pura, che Deleuze insegue lungo i corridoi dei romanzi di Kafka, sul lastricato proustiano, tra i corpi deformati di Bacon, sui volti di Dreyer, nelle voci senza corpo di Duras.

Questo compito sempre da riiniziare, “il mobile che non cessiamo mai di spostare” scrive Deleuze con Guattari, è anche quello della filosofia, che quasi in un contagio con l’arte diviene una pratica, una sperimentazione cui possono finalmente partecipare singolarità non previste dal canone maggiore. Per cogliere il divenire creando concetti ma senza snaturarlo in una paralisi mortifera occorre secondo i due autori la vecchiaia, una strana vecchiaia che non è fatta di serenità e di saggezza, ma è il divenire-folle del regista Joris Ivens, che novantenne decide di filmare il vento, o di Kant, divenuto nella terza Critica “sensibile alla catastrofe”. Oppure è necessaria l’innocenza, l’ingenuità che Deleuze si è da solo riconosciuto, un divenire-bambino della filosofia che si permette le domande dirette e irricevibili dell’infanzia. Ma anche un divenire-donna, se è vero che, come i due scrivono ancora in Mille piani (1980), “la ragazza e il bambino non divengono, è il divenire stesso che è bambino o ragazza”. Qui la posizione femminile è la messa in questione delle categorie tradizionali, affermazione di un piacere del pensiero che non vuole risolversi soltanto in sublimazione, ma che crede in un resto pulsionale non intellettualizzabile. I vecchi, le donne, i bambini, sottraendosi allo slogan che li vuole vittime, i primi da salvare in caso di naufragio, diventano le figure di una pratica anti-securitaria, sono gli eroi senza eroismo che salvano la filosofia da un pensiero dell’utile, dell’applicazione immediata, della medietà e del buon senso. Personaggi concettuali che rendono possibile immaginare nuove figure, femminili, folli, giovani, come praticanti della filosofia. Una filosofia che, come la pratica artistica, bordeggia quella dimensione scottante, pulsionale, impersonale, a volte immergendovisi, a volte trovando una consistenza che deve immediatamente sciogliersi, riaprirsi, svuotarsi e riiniziare da capo.

Spostarsi a lato, scartare (come i cavalli), sottrarsi, ritrarsi, svuotarsi. I verbi usati per descrivere il movimento dell’essere e del pensiero così come viene proposto da Deleuze e Guattari conducono a uno dei concetti più problematici, ma anche vitali, nel novero delle loro invenzioni, quello di divenire-minore. I due, come si sa, ne scrivono in primo luogo relativamente alla letteratura di Kafka, che nella vulnerabilità dello scrivere in una lingua che non è la propria lingua-madre trova una via di fuga generativa e rivoluzionaria. L’aspetto decisivo del testo su Kafka è il rifiuto di caratterizzare il divenire-minore come mera minorità, di farne un tratto nuovamente identitario. Il minore in questa prospettiva non è mai una volta per tutte, un luogo fisso in cui accomodarsi, bensì qualcosa che continuamente diviene, uno spostamento, una deterritorializzazione. Si tratta di immaginare un lavoro per sottrazione interno al linguaggio stesso, una sottrazione che tuttavia non è il silenzio, l’afasia, ma appunto un movimento di scarto. Ma la potenza di questo operatore concettuale si diffonde ben oltre il campo letterario e linguistico, tanto che in Mille piani si parla di un “divenire-minore di tutti”, e la deterritorializzazione viene descritta come “una bocca che smette di mangiare e si mette a cantare”.

Da un punto di vista disciplinare dell’estetica, il divenire-minore è un concetto discutibile, che sembra scegliere sempre gli esempi più radicali e meno frequentati della storia dell’arte per fondarvi, sopra e intorno, una teoria. Eppure, in linea con lo spirito deleuziano che all’esperienza ordinaria ha sempre preferito la sperimentazione, è proprio ai margini dei luoghi più battuti, portando il linguaggio fuori dal solco, che si può scorgere la verità dell’arte. Dal punto di vista politico, i problemi che si presentano non sono di meno, se la pratica del divenire-minore viene presa seriamente come fuga da ogni territorio saldamente conquistato, come rifiuto di aderire pienamente ad ogni ruolo, come messa in discussione dei risultati raggiunti. Eppure, sappiamo che quando il rischio è quello di un irrigidimento identitario e mortifero questo compito impossibile è da affrontare con gioia e disperato ottimismo.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Immagine-tempo. Cinema 2 (1985), Ubulibri, Milano 1997.
Id., La letteratura e la vita, in Id., Critica e clinica (1993), Cortina, Milano 1997.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani (1980), Castelvecchi, Roma 2014.
Id., Kafka. Per una letteratura minore (1975), Quodlibet, Macerata 2020.
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni (1977), Ombre corte, Milano 2006.

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