Creazione e anarchia si presenta come un testo ponte, perché riprende un ciclo di lezioni tenute tra il 2012 e il 2013 e alcuni saggi o parti di libri già pubblicati. Agamben vi riconferma la scelta dell’archeologia come metodo filosofico. Presupposto del libro è che solo attraverso la ricerca archeologica sia possibile accedere al presente e superarne la crisi, proprio perché quest’ultima si configura come una «crisi del rapporto col passato» (Agamben 2017, p. 10).

Il testo prende avvio dalla considerazione del fatto che siamo incapaci di determinare quale sia «il luogo dell’arte nel presente», perché non sappiamo più che cosa sia un’“opera d’arte”. La posta in gioco del discorso, però, travalica di molto il solo campo artistico: l’obiettivo di Agamben, infatti, è mettere in questione la definizione dell’“opera” propria dell’umano in quanto tale. Non si tratta di fare una critica dell’arte contemporanea, bensì di rimettere in discussione Aristotele. Per Agamben, la concezione aristotelica dell’agire umano come diviso tra praxis e poiesis, tra un’azione che ha il proprio fine in sé stessa e un’attività produttiva il cui fine sta invece nell’opera, contiene «il germe di un’aporia», della quale paghiamo ancora le conseguenze. Identificare, come ha fatto Aristotele, l’energeia umana con l’«energeia dell’anima secondo il logos» (p. 18), fa dell’umano un essere condannato alla scissione. A caratterizzarlo è infatti da una parte l’attività inoperosa del logos, dall’altra le diverse attività produttive nelle quali si impegna senza sosta. Per risolvere questa scissione, Agamben suggerisce di aggirare la distinzione aristotelica, prendendo sul serio proprio quell’ipotesi che Aristotele aveva scartato: forse l’uomo è un vivente «nato senz’opera», forse l’uomo, come tale, non ha un’opera specifica. A partire da questa ipotesi «interessantissima» sarà anche possibile ripensare il luogo dell’arte nel presente.

Nell’antica Grecia l’arte era poiesis, ma a partire dal Rinascimento essa è si è trasformata in una sorta di praxis. Tramite una trasposizione «sciagurata» del lessico teologico all’ambito artistico, l’arte ha smesso di risiedere nell’opera per trovare posto «nella mente dell’artista». Così essa è divenuta frutto della creatività e si è prodotta quella che Agamben chiama «la “macchina artistica” della modernità» (p. 20), la cui prestazione consiste nello stringere l’opera e l’operazione creativa in un vincolo indissolubile, per il tramite dell’artista. L’unico luogo possibile per l’opera d’arte è ormai la stessa operazione creativa dell’artista. Nella tappa archeologica costituita dall’arte contemporanea, si assiste infine a un ulteriore slittamento del paradigma dell’opera, questa volta in direzione della performance. Per Agamben, la performance è un «ibrido terzo» tra poiesis e praxis nel quale è l’azione stessa che pretende di presentarsi come opera (p. 25). Non più opera come prodotto dell’azione, non più azione senza prodotto, ma azione in quanto opera: il ready-made, ovviamente.

Certo Agamben non poteva non sottolineare la torsione decisiva impressa da Duchamp al movimento dell’arte contemporanea, ma l’aspetto più interessante è altrove: a suo parere, la diffusione della performance come opera d’arte ha reso possibile l’«apparire del conflitto storico, in ogni senso decisivo, fra arte e opera, energeia e ergon» (p. 27). Quali sono i vantaggi dell’emergere di questo conflitto? Se, certamente, la performance non è riuscita a disattivare la macchina artistica, e anzi continua ad alimentare quei «templi dell’assurdo» (p. 26) che sono i musei, quantomeno ha iniziato a far girare la macchina a vuoto. Si è aperta così la possibilità di dismettere definitivamente quest’ultima e di abbandonare il paradigma della creazione artistica. Ciò è possibile però, avverte Agamben, solo a patto di abbandonare, al tempo stesso, «l’idea che vi sia qualcosa come una suprema attività umana» (p. 27). Solo accogliendo l’ipotesi che «l’uomo sia un animale essenzialmente argos, inoperoso» (p. 48) l’arte può divenire una forma dell’uso, solo uno fra i modi di costituire sé come forma di vita.

La questione della performance è discussa nuovamente nella lezione dedicata all’archeologia del comando, dove Agamben riflette sul ritorno patologico del rimosso religioso nel mondo contemporaneo. Questo ritorno della religione ha infatti a che fare con la «crescente fortuna della categoria del performativo» (p. 105), gemello linguistico della performance artistica. “Comando”, ricorda Agamben è un altro e meno noto significato di “archè”, oltre a “origine”. Un’archeologia del comando sarà dunque, paradossalmente, una archeologia dell’archè stessa. Per svolgerla, egli prende nuovamente le mosse da Aristotele il quale, definendo il discorso apofantico come il solo di cui si possa dire se sia vero o falso, ha decretato l’abbandono dei discorsi non apofantici, tra i quali si colloca il comando, «alla competenza dei retori, dei moralisti e dei teologi» (p. 99).

Da qui, Agamben procede a ipotizzare l’esistenza di due ontologie distinte – «forse l’acquisizione essenziale della mia ricerca» (p. 103). Da una parte, un’ontologia dell’asserzione apofantica, propria della filosofia e della scienza, nella quale la relazione tra linguaggio e mondo si trova a essere asserita. Dall’altra, un’ontologia del comando, imperativa, propria del diritto, della religione e della magia, nella quale la relazione fra linguaggio e mondo è, invece, comandata (pp. 102-103). L’aspetto interessante, più che nella distinzione, sta nella prospettiva diagnostica: diversamente da chi lamenta l’invadenza della scienza e del sapere esperto nel mondo contemporaneo, Agamben sostiene che l’ontologia del comando stia progressivamente soppiantando quella dell’asserzione (p. 105): la contemporaneità non appartiene alla scienza, piuttosto, è l’epoca della religione, della magia e del diritto. Questi ultimi governerebbero «in realtà segretamente il funzionamento delle nostre società che si vogliono laiche e secolari» (p. 106). Un ritorno del religioso, questo, che (solo) un’archeologia filosofica si mostra in grado di svelare.

Per apprezzare meglio il senso di questa ipotesi sulla centralità dell’ontologia del comando, bisogna notare come il performativo linguistico svolga in filosofia lo stesso ruolo che la performance svolgeva nell’arte: quella appariva come un ibrido terzo tra poiesis e praxis, questo si trova all’incrocio fra le due ontologie, senza riuscire però a disattivarne la separazione. Nel caso dell’arte, l’ibridazione aveva fatto girare a vuoto la macchina artistica. Nel caso dell’ontologia, invece, è il mondo stesso, in un certo senso, a girare a vuoto. Nella «cesura fra ontologia e prassi, fra essere e agire» (p. 131), infatti, la contemporaneità appare tutta sbilanciata sulla prassi e sull’agire, nella forma, appunto, della performance. Si tratta di un mondo dimentico dell’essere, privo di fondamento ontologico e assolutamente chiuso in un circolo di autoriferimento. Circolo linguistico, per non dire ermeneutico, come quello innescato dal «puro imperativo» di Jacques Derrida – «interpreta!» (p. 95) – che Agamben sembra considerare come un’espressione paradigmatica di questa svolta dell’ontologia dall’asserzione al comando.

Segno del riaffacciarsi del rimosso religioso, e dell’avanzata dell’ontologia del comando, è anche e soprattutto il trionfo del capitalismo, in quanto fede assoluta nella fede stessa, fede nel creditum, nel denaro. Un denaro che assomiglia sempre più al linguaggio, e che, in modo evidente a partire dalla sospensione della convertibilità in oro, è diventato unico referente di sé stesso. D’altra parte, sostiene Agamben, il capitalismo come la cristologia «non conosce un principio» ed è perciò «intimamente an-archico» (p. 128). Inutile, allora, cercare di frenare la deriva linguistico-finanziaria e religiosa del capitalismo cercando di tornare «a un solido fondamento nell’essere» (p. 132). Piuttosto, si tratterà di comprendere la «profonda anarchia della società in cui viviamo» per poter porre finalmente il problema della «vera anarchia».

Quindi, per l’opera e per l’anarchia, Agamben ripropone l’argomento filosofico che aveva applicato alla vita, al diritto e al linguaggio nei volumi di Homo sacer. A fronte di un dispositivo duale, fondato sull’autoriferimento, egli si impegna a creare concetti che lo rendano inattivo, che lo sospendano. Tali concetti non possono coincidere con la scelta di uno o dell’altro polo del dispositivo. Per disattivarlo occorre invece situarsi e stare, contemplanti, nell’indistinzione fra i due: «La soglia di indiscernibilità è il centro della macchina ontologico-politica: se la si raggiunge e ci si tiene in essa, la macchina non può più funzionare» (Agamben 2014, p. 304). Così, non si tratta di ritrovare la solidità perduta dell’essere, come in Homo sacer non si trattava di tornare a una zoē prima della sua distinzione dal bíos. Una tale solidità, infatti, dato il potere pre-supponente dell’ontologia e della politica, non c’è ed è come se non ci fosse mai stata. Bisogna invece stare nell’anarchia presente per trovare la «vera anarchia», come bisognava stare nell’indistinzione fra zoē e bíos per trovare una forma-di-vita.

Le conclusioni del libro sono dunque vicine a quelle de L’uso dei corpi: nella «potenza destituente» e nell’inoperosità «è in questione la capacità di disattivare e rendere inoperante qualcosa – un potere, una funzione, un’operazione umana – senza semplicemente distruggerlo, ma liberando le potenzialità che in esso erano rimaste inattuate per permetterne così un uso diverso» (p. 345). Il paradigma dell’uso torna in Creazione e anarchia come possibilità di disattivazione della trappola ontologica, linguistica, politica (e artistica) in cui ci troviamo presi.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, Neri Pozza, Milano 2017.
Id., Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005.
Id, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Milano 2014.

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