Nelle molteplici articolazioni che può assumere l’universo finzionale, il cinema, e di conseguenza la serialità televisiva, ha saputo portare sul grande e piccolo schermo una rinegoziazione e riconfigurazione dei traumi storici, delle paure e delle ansie sociali e politiche. Il genere horror, specialmente, ri-elaborando e mediando simbolicamente eventi iconici, esperienze personali e collettive nel proprio linguaggio cinematografico, dalle invasioni aliene a quelle zombie, da scenari apocalittici, distruzioni, catastrofi ed epidemie attua un processo di revisione critica del contesto storico e culturale.
La serie televisiva The Terror (andata in onda sul canale statunitense AMC) è un adattamento del romanzo di Dan Simmons La scomparsa dell’Erebus (Mondadori, 2007) che, unendo elementi finzionali con fonti e testimonianze storiche raccolte e documentate dagli studiosi nel corso di due secoli, ricostruisce gli eventi che circondano la spedizione compiuta dalle due navi ammiraglie inglesi Erebus e Terror. La prima sotto il comando di Sir John Franklin mentre la seconda capitanata da Francis Crozier nel 1845 salparono verso il Canada del Nord al fine di completare l’attraversamento del passaggio a Nord Ovest, già tracciato da est a ovest sulle cartine, ma mai effettivamente superato. Nonostante i due vascelli fossero reduci da spedizioni sia in Antartide che in Artide, dunque ben equipaggiati per superare l’inverno artico, rimasero bloccati nel ghiaccio nei pressi dell’isola di Re Guglielmo. La scomparsa delle navi, così come la mancanza di alcun superstite, diede adito, nel corso dei decenni, ad innumerevoli leggende, ispirando drammi teatrali, dipinti e poesie.
Avvolta tra storia e mito, la tragica vicenda era stata parzialmente ricostruita attraverso alcune testimonianze della popolazione Inuit così come dall’analisi scientifica di alcuni reperti e manufatti provenienti dalla spedizione di Franklin, o nei pressi di quelle che erano state classificate come tombe. Alla luce di queste ricerche si concluse che gli uomini erano morti di polmonite o tubercolosi e che le condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate a causa di un probabile avvelenamento da piombo dovuto alla saldatura difettosa delle scatole di cibo in scorta, o dal sistema di desalinizzazione dell’acqua con cui erano state equipaggiate le due navi.
Le ricerche si conclusero nel settembre del 2016 quando fu annunciato il ritrovamento del relitto della Terror, due anni dopo che una spedizione del National Geographic trovasse quello dell’Erebus, in una piccola insenatura dell’isola di Re William. Entrambe le navi erano rimaste a pochi metri di profondità, tanto che la localizzazione è stata possibile attraverso le testimonianze di alcuni Inuit che videro la cima dell’albero maestro emergere, come una nave fantasma, periodicamente dalle acque e riaffiorare tra i ghiacci. Tuttavia la storia è avvolta ancora dal mistero, e da retroscena macabri, come tagli e incisioni di lama sulle ossa umane che potrebbero essere interpretati come segni di cannibalismo.
Nonostante la serie ripercorra alcune tracce lasciate più o meno fedelmente dal resoconto storico, i preparativi per la missione, la richiesta di salvataggio proposta dalla moglie di Franklin a due anni dalla sparizione, la drammatizzazione dell’evento, che comporta incontrovertibilmente anche una sua re-interpretazione, una forma di riscrittura storica, mostra una riconfigurazione della paura di un gruppo di uomini che in un ambiente estremamente ostile senza equipaggiamento e alimentazione adeguata, rimane in attesa del proprio destino. Malgrado alcuni flashback ci riportino alla preparazione della spedizione, soprattutto per delineare i caratteri dei personaggi, la quasi totalità della narrazione si svolge in una desolata distesa di ghiaccio.
Fin dall’inizio dunque i 129 uomini delle due navi sono in attesa di direttive per sapere come comportarsi, attendono che arrivi l’estate e che lo scioglimento dei ghiacci faciliti l’arrivo dei soccorsi. In maniera simile alla neurastenia che affliggeva i soldati durante la Prima guerra mondiale, a seguito del prolungato e logorante senso di impotenza e fragilità a cui erano costretti nella staticità e fissità dello stallo difensivo delle trincee, sotto il fuoco di sbarramento o il bombardamento nemico, gli uomini devono combattere l’ipotermia, la fame, le malattie come lo scorbuto e il botulismo e difendersi da un gigantesco orso polare, a cui non si riesce ancora a dare una forma e una sembianza, che sta decimando l’equipaggio. Tuunbaq, come viene chiamato tra gli Inuk, sembra una mistica manifestazione del selvaggio, una stregoneria con cui la popolazione si difende dall’invasore, proteggendo il proprio mare che altrimenti si frantumerà sulla terra.
La paura di una fine ormai certa, di una condizione senza speranza, di cui il mostro è una chiara figurazione, inizia a contagiare tutti gli uomini, proprio come un’epidemia che si propaga come lo sfinimento psicofisico a cui sono costretti. L’animale più pericoloso diventa l’uomo, la cui paura ne metterà a dura prova la propria natura, dai tentativi di ammutinamento all’istinto di sopravvivenza. «Non far prevalere i principi morali sul senso pratico». A pervadere tutta la serie è una dimensione di visibile non visibile, reale e immaginario. L’ambientazione artica, che caratterizza numerosi predecessori cinematografici da La cosa (Carpenter, 1982) ad Alien vs. Predator (Anderson, 2004) naturalmente si adatta a mostrare un luogo in cui si manifestano forze sconosciute, primordiali, legate a culti antichi, lontani da qualunque incontrovertibilità scientifica dell’Impero britannico.
La totale oscurità che avvolge le notti artiche, illuminate solo dai riflessi delle aurore, restituisce una porzione di reale parziale, legata alle dinamiche interne alla nave, e agli uomini, senza che si possa esplorare il terreno circostante. L’oscurità interiore continua invece a permanere anche una volta tornati a rimirare la luce, l’orizzonte, apparentemente sconfinato, del visibile, che tuttavia palesa il destino tragico a cui l’equipaggio deve andare incontro in un cammino verso (l’ignoto) sud. Avvolti da una nebbia fitta o sotto un sole che sembra essere più cocente di quello di un deserto, l’equipaggio ancora una volta è in attesa del proprio destino, pronto per essere colpito da una sforza sconosciuta. Gli uomini portano la propria croce trascinando le scialuppe, sperando che si apra uno spiraglio nei ghiacci, ma destinate a diventare sepolcro.
Come la spedizione e la conseguente ritirata dei diecimila mercenari assoldati da Ciro nel tentativo di usurpare il trono di Persia, episodio narrato dallo storiografo Senofonte nell’Anabasi e ripreso in un punto della serie, gli uomini sono all’oscuro delle decisioni che per loro hanno preso i comandanti. L’artico diventa luogo di una memoria senza traccia, spazzata dal vento e coperta sotto la coltre di neve e ghiaccio. Un luogo così remoto che permette un isolamento volontario in cui non è possibile però sfuggire ai fantasmi del passato, destinati a riaffiorare ciclicamente nel paesaggio, luogo di memoria, e nella mente di chi ha vissuto l’esperienza traumatica.
Riferimenti bibliografici
D. Simmons, La scomparsa dell’Erebus, Mondadori, Milano 2008.
Senofonte, Anabasi. Testo greco a fronte, a cura di F. Bevilacqua, UTET 2006.