Anche il Fuji è invisibile
quando è ricoperto di nebbia piovosa.
Matsuo Basho
The Mist è un serial creato da Christian Thorpe per l’emittente televisiva Spike, basato sull’omonimo romanzo breve di Stephen King, che aveva già avuto una versione per il cinema (F. Darabont, 2007). Il soggetto è in sè piuttosto semplice: i cittadini di Bridgeville (ennesimo villaggio del Maine kinghiano scosso alle radici dal Male) sono minacciati da una fitta nebbia che avvolge il paese e uccide chiunque si avventuri al suo interno.
La nebbia al suo apparire ricorda quella del film di John Carpenter (The Fog, 1980): si tratta, in entrambi i casi, di una apparizione sinistra, che trasforma il semplice e ricorrente fenomeno naturale in un evento singolare. La nebbia possiede infatti tutta una serie di tratti prodigiosi. Il primo aspetto irregolare è quello, per così dire, sostanziale: di un bianco risplendente, la nebbia ribatte ottusamente qualsiasi intento di scrutare al suo interno in virtù di una consistenza filamentosa (simile a quella delle nuvole) che resiste alla dispersione, e che permette alla figura, invece di scomparire all’improvviso, di guadagnare il prestigio di un commiato graduale; un cerimoniale dell’evaporazione si impadronisce lentamente dei corpi, attaccando prima di tutto i contorni, poi i volumi e, infine, riducendo la silhouette ad un resto gassoso. Secondo aspetto della nebbia, proprio come in Carpenter, è quello di procedere contro vento (è quindi sinistramente dotata della capacità attanziale del “volere”), e, nota interessante, è regolare: avanza secondo una linea perfettamente retta, sconfessando alcune delle caratteristiche proprie del bello naturale, che sono quelle, come dice Adorno nella sua Teoria Estetica, dell’irregolare e del non schematico. È, questa, la prima interessante avvisaglia di qualcosa che ci mette di fronte ad un paesaggio culturale, e, quindi, creato dall’uomo (si tratta infatti del risultato di un esperimento militare top secret). Nello stesso tempo il suo manifestarsi provoca (aderendo a un aspetto che appartiene, di contro, al sublime) la contemplazione che atterrisce e che, assecondando i dettami di un magnetismo sinistro, attrae verso il suo vuoto centrale: i corpi, più che penetrare dentro la nebbia, sembrano attirati dentro di essa.
A questo punto ci sembra interessante ritornare brevemente al romanzo di partenza, dove King ci offre due indizi importanti: il primo è quando paragona il centro commerciale (in cui Romero aveva ambientato nel 1978 Zombi – Dawn of the Dead), dove si consumerà gran parte della vicenda (e sulla cui importanza ritorneremo), ad una Cassa di Skinner. Come si sa la cassa è quella di uno dei più famosi studi sulla “memoria implicita”: un animale è rinchiuso in una spazio chiuso dove si muove liberamente. Una leva (la prima volta mossa accidentalmente) apre uno scomparto con del cibo: l’animale associa così un’azione alla sua conseguenza. La memoria implicita è, quindi, la più primitiva forma di memoria, legata, nell’uomo, ad assuefazione e sensibilizzazione ma anche ad abitudine e duttilità. L’uomo sembra utilizzare, muovendosi all’interno del centro commerciale, una memoria di questo tipo, mentre (ed è questa la più interessante differenza che il serial introduce rispetto al libro) una volta fuori, a contatto con la nebbia, alla memoria implicita se ne sostituirà una seconda, che, come vedremo, è legata al trauma e all’oblio.
Il secondo indizio è quando King paragona la nebbia ad una nube tossica: non possiamo non pensare al romanzo di DeLillo Rumore Bianco, che esce lo stesso anno di quello di King (1985) e che narra di una nube tossica che si forma in seguito alla fuoriuscita di materiale chimico da un vagone ferroviario. La nube tossica di DeLillo è, come la nebbia, dotata di una sinistra capacità di accrescersi e mutare: diventa, di seguito, densa massa nerastra, colonna prominente, nube di fumo negro in espansione, fuoriuscita tossica nell’atmosfera, nave dei morti dell’Edda nordica, enorme lumaca, e spettro mortale sospeso sopra gli attoniti cittadini (DeLillo 2014). Il libro di DeLillo finisce praticamente dove si svolge la parte più importante del serial: in un centro commerciale, miniatura a palinsesto della società dei consumi dove, esattamente come nel romanzo di King, hanno appena cambiato l’ordine della disposizione della merce. La cosa crea, racconta DeLillo, desolazione e panico, un movimento generale simile ad un trance frammentato, e, come per l’animale che inizia la sue esplorazione dentro la gabbia di Skinner, impera una sensazione di incantamento e di assenza di un obbiettivo definito. In definitiva, una atmosfera erratica tipica del soggetto trasformatosi in consumatore. Il centro commerciale è separato dall’esterno da una frontiera impermeabile: una doppia porta elettrica di vetro trasparente. Questo interessante dispositivo possiede conseguenze cinematografiche rilevanti (che non ha, ad esempio, un altro spazio come quello della Chiesa che, con il suo pesante portone sembra rappresentare un’alternativa assoluta alla nebbia o quello, disseminato ed erratico, della serie monadica delle abitazioni): permette all’interno di relazionarsi con un esterno di cui è la negazione assoluta; è una separazione, un interstizio, un intervallo, capace di lasciare l’alterità che la nebbia incarna infinitamente al di fuori e, nello stesso tempo, fonda un rapporto attraverso questa stessa interruzione. La porta trasparente inquadra ciò che è fuori costituendola come una interiorità di attesa o di eccezione.
Al campo degli stimoli e delle risposte il controcampo della domanda più profonda. Al campo delle relazioni (che presto, nell’ennesima variante dell’archetipico Angelo Sterminatore, cominceranno a degenerare) il fuori campo della perdita di coordinate e del vuoto che si fa intercapedine. Al campo dell’universo dei consumi, si contrappone il fuori campo di quello che Blanchot avrebbe definito essere «il deserto che si accresce» dove «nessuno vuole restare faccia a faccia con ciò che è nascosto» (Blanchot 1978, p. 40). L’uscita a ricognizione del fuori (che presto prenderà la forma della cacciata del capro espiatorio secondo effetti opposti a quelli descritti da Girard ne La Violenza e il Sacro: la cacciata non risolve la crisi del “tutti contro tutti” iniziale) si consuma in uno spazio che non possiede più direzioni: la nebbia è «l’arida forza che strappa via il paesaggio» (Blanchot 2015, p. 225) ovvero quell’universo di segni condivisi che permette di orientarci e, nell’illimitato del cieco, l’errante nella nebbia «va avanti nello stesso punto senza camminare e senza restare» (ibidem) – si veda lo sfinito percorso analogo del protagonista del Il seme della Follia (Carpenter, 1994), ispirato ai racconti di un altro maestro dell’orrore senza nome, H. P. Lovecraft – e affronta un vuoto che gli oppone resistenza. Ma di che tipo di resistenza si tratta?
La nube tossica di DeLillo, lo ricordiamo, creava effetti di déjà-vu; la nebbia del serial è capace di dare forma e figurativizzare i traumi delle persone che entrano in contatto diretto con essa. Il risultato è quello che si potrebbe definire la scissione del corpo dalla presenza: gli ologrammi rapaci che la nebbia produce pongono di fronte ai personaggi l’esperienza dello spazio vuoto e della dispersione che forma e dà forma, addensandosi, a quello che si potrebbe definire con Blanchot come «il viso nudo dell’incontro e la sorpresa di trovarsi faccia a faccia» (ivi, p. 226). Quando la giovane Mia si volta e si incontra (sarebbe meglio dire si “imbatte”, come accade con una trappola o un animale pericoloso) con la materializzazione di sua madre (morta in un ospedale psichiatrico) si trova in una situazione simile e opposta a quella di Orfeo. Dov’è che vanno entrambi? Entrambi discendono: Orfeo, attraverso una scalinata, agli inferi, Mia, attraverso il velo di nebbia che forma un dedalo di stanze che si ripetono, nella casa della sua adolescenza. Cos’è che vedono? Invece di vedere Euridice o la Madre, entrambi vedono qualcosa di simile a una nebbia: «L’inferno, l’orrore dell’assenza, la dismisura dell’altra notte»; e, nello stesso tempo, si accorgono che quel vuoto, quella nebbia, è anche il viso nudo di Euridice e della Madre «che il mondo gli ha sempre velato» (ibidem). È come se la nebbia possedesse uno spessore capace di rendere la carne presente, e nello stesso tempo, di mettere in luce la presenza, senza nome e senza forma, più greve e estranea: quella della morte.
La nebbia permette quindi, da un lato, una forma di conoscenza paradossale, che è quella del «fervente delle separazioni» (Cioran 2014) che sperimenta una esperienza-limite: è l’uomo che si ritira fino al margine estremo del circolo, cerca sentieri non frequentati e rispondendo alla chiamata del vuoto è capace di seppellire il suo corpo nel suo corpo (come il protagonista maschile, Kevin Copeland, quando lotta contra se stesso). Il finale (non verrà girata una seconda stagione) mostra i protagonisti che, al salvo in un fuoristrada dopo essere sfuggiti indenni alla “cacciata” dal centro commerciale e alla nebbia, osservano un treno merci che si ferma in una spettrale stazione deserta. I vagoni, con i finestrini chiusi ermeticamente, ricordano quelli, atroci, dei campi di sterminio. Il treno non serve per caricare passeggeri, che invece sono costretti a scendere da un gruppo di miliziani e abbandonati: sono offerti, sacrificati alla nebbia. Sono il suo nutrimento. È l’altro lato della nebbia: quello, nero, dello sterminio che toglie all’uomo il potere di dire “Io”. La nebbia diventa potere di de-creazione capace di degradare un congiunto di esseri umani in una massa amorfa. Inizia così qualcosa di simile a un impero dispostico della nebbia che contagia l’esistenza fino a trasformarla in una vita senza forma: trasforma il corpo del popolo (come direbbe Spengler nell’ultima tavola sinottica che apre il suo Il tramonto dell’Occidente) in massa informe, l’individuo (che, come dice Simone Weil, ha perduto l’abito del carattere) in sostanza amorfa, facendo si che il creato passi all’increato: qualcosa di vischioso, simile a un ragno o a uno sputo (Bataille) e solidale alla nebbia stessa che lo sta consumando.
Riferimenti bibliografici
M. Blanchot, L’Attesa, l’oblio, Guanda, Milano 1978.
Id., La Conversazione infinita, Einaudi, Torino 2015.
E. Cioran, Breviario de Podredumbre, Taurus 2014.
D. DeLillo, Rumore Bianco, Einaudi, Torino 2014.