L’Andrea Chénier di Umberto Giordano, che ha aperto la stagione 2017/18 del Teatro alla Scala di Milano con la regia di Mario Martone, e la direzione di Riccardo Chailly, potrebbe sembrare il terzo capitolo di un’ideale trilogia che il regista napoletano sta portando avanti dal 2010, anno di uscita di Noi credevamo. Una sorta di “trilogia della rivoluzione” – del Risorgimento italiano nel primo caso e di quella francese negli altri due – che, trasversalmente alla sua attività sul palcoscenico e dietro la macchina da presa, è cominciata con il film del 2010, è passata per la straordinaria messinscena di La morte di Danton di Georg Büchner del 2016 e si è conclusa con questo altrettanto riuscito Andrea Chénier.
E che si sia trattato di trilogia, Martone sembra averlo voluto denunciare in modo diretto non solo nelle dichiarazioni che hanno preceduto e seguito la prima scaligera, ma anche attraverso l’utilizzo di una medesima cifra registica – si pensi alle scene del Tribunale della Rivoluzione, che scenograficamente legano il processo di Danton a quello di Chénier, o addirittura all’utilizzo dello stesso elemento della ghigliottina presente in tutti e tre i lavori – che rimanda a un’ideale chiusura di un viaggio dentro le aporie della nostra tarda modernità che proprio nel mito fondativo rivoluzionario, e nel suo parziale fallimento, ha visto nascere una parte importante delle sue contraddizioni, in Italia e non solo.
In realtà però questo Andrea Cheniér più che essere il momento di chiusura di una trilogia sulla rivoluzione, sembrerebbe il terzo passaggio nelle poetiche e nelle forme del verismo italiano con cui Martone ha cadenzato i suoi ultimi lavori alla Scala, prima con il dittico Cavalleria rusticana/Pagliacci nel 2011, poi recuperando una dimenticata Cena delle beffe nel 2016 e infine con l’opera di apertura di questa stagione. Perché nonostante l’ambientazione a cavallo del Terrore giacobino, l’opera di Giordano non è in alcun modo un lavoro sulla rivoluzione, come invece sono i precedenti, quanto una delle più importanti espressioni di quel repertorio verista e decadente che il Teatro alla Scala negli ultimi anni sta cercando, encomiabilmente, di rivalutare.
Questo Andrea Chénier fa dunque da pendant alla Madama Butterfly che ha inaugurato la scorsa stagione e anticipa la Francesca da Rimini di Zandonai che andrà in scena il prossimo anno, in un percorso tra le forme veriste che, a cominciare dal più importante teatro lirico italiano, vuole ripensare l’intera tradizione novecentesca europea (di cui Chailly negli ultimi anni è stato un grande interprete) alla luce di un’eredità italiana tardo-ottocentesca il cui portato è stato spesso considerato dalla critica il semplice effetto reificato dell’influenza dell’estetica di Wagner dentro le forme popolari dell’opera italiana.
Ora, numerosi sono gli spunti di riflessione che una produzione come quella firmata da Martone alla Scala pone circa il ruolo che questo repertorio può assumere all’interno di un’attuale riconsiderazione della nostra tradizione tout court. Soffermandoci solo su due di essi si potrebbe dire che, in primo luogo, il tentativo di Martone di “politicizzare” l’opera di Giordano, se su un piano scenografico è risultato vincente, da un punto di vista ermeneutico potrebbe esserlo un po’ meno. Perché è indubbiamente vero che l’Andrea Chénier, come gran parte delle opere italiane ad essa coeve, non è altro che il tentativo di ridefinire l’eredità del Tristan wagneriano dentro i confini della forma popolare italiana. L’opera di Giordano tematizza infatti il rovesciamento del paradigma romantico del melodramma di Verdi, cercando di riformulare i valori del Tristan dentro una dialettica storica in cui l’amore, l’annullamento soggettivo e simbiotico interno all’astrazione della “notte” del mondo, è contrapposto all’inautenticità del “giorno” (in questo caso della Rivoluzione francese), in cui si consumano dinamiche di potere puramente illusorie.
In altre parole, il destino dell’umano che Verdi vedeva dentro un orizzonte storico e politico, con il wagnerismo italiano di fine secolo è ripensato interamente come un al di là in cui il soggetto riconosce se stesso solo nell’annichilimento, nella fuga simbiotica dal mondo stesso di cui la morte non è che la conseguenza necessaria e obbligata. Così va intesa dunque la fine sul patibolo dei due protagonisti, Chénier e Maddalena di Coigny, nello straordinario finale in cui l’orchestra cita l’accordo di Tristan proprio a sottolineare una filiazione evidente (siamo quindi lontani anni luce dal naturalismo di Büchner, che negli stessi anni faceva morire Danton riuscendo nel tentativo straordinario di rinegoziare l’eroismo romantico con una modernità già novecentesca).
In secondo luogo, però, la messinscena di Martone coglie un’istanza cruciale del lavoro di Giordano da cui, effettivamente, è possibile ripartire per compiere questa operazione di rivalutazione a cui si faceva accenno. Ed è la sua istanza cinematografica, che Martone riconosce con grande forza decidendo, per esempio, di dare continuità ai quattro quadri dell’opera grazie all’utilizzo di una piattaforma rotante, che, quasi come in una prassi di montaggio, muove l’azione senza soluzione di continuità.
Questa dimensione cinematografica del melodramma tardo romantico e primo-novecentesco italiano, che già Gramsci nei suoi Quaderni aveva colto con grande lucidità, è indubbiamente un punto di arrivo autonomo di questa nostra tradizione, che origina non tanto e solo dal suo essersi fatta carico di un’estetica della totalità di stampo wagneriano, quanto dall’aver ripensato la propria drammaturgia popolare dentro una rappresentazione musicale veicolata da un sinfonismo orchestrale invece che dalla pura vocalità romantica (e non è un caso che i grandi passaggi sinfonici veristi siano diventati perfette colonne sonore del cinema americano, basti pensare a Il padrino o Toro scatenato).
In altri termini, quello che Martone riscopre in questo repertorio è proprio la sua vocazione intimamente cinematografica, fondata su un’immaginazione melodrammatica iperbolica, che ha ripensato il cosmopolitismo del linguaggio musicale e quello dell’immagine, e in cui, come ha detto Peter Brooks, il parossismo delle passioni ha corrisposto a un’istanza fortemente etica dell’umano. Questo Andrea Chénier sembrerebbe dunque essere un ulteriore e illuminante attraversamento della forma melodrammatica teatrale e cinematografica, che abbandonate le contraddizioni dialettiche in cui erano ancora costretti i personaggi di Noi credevamo o quelli di Büchner, è invece immersa nella “pura vita”, in quella meridionalità da cui Giordano e Martone stesso provengono e in cui la dimensione “nuda” dell’umano ha preso il posto all’idealità assoluta della rivoluzione. Ecco perché la produzione scaligera, distantissima da qualsivoglia orizzonte illuminista ed europeo a cui sembrerebbe ancorata, è invece l’ultima tappa di un lungo “viaggio in Italia” in cui Martone, come il suo Leopardi, è rimasto seduto ai piedi del Vesuvio. Aspettando Capri-Batterie.
Riferimenti bibliografici
P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica, CUEM, Milano 2004.
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 2014.