Naturalmente morti di desiderio

Nessun dubbio sul fatto che, sin dai tempi di Scuola di nudo, l’opera narrativa di Walter Siti costituisca, nel suo insieme, il miglior sismografo che la letteratura italiana conosca per registrare i movimenti tellurici che, via via, squassano e ridisegnano il nostro tempo.

Due anni fa, con l’«abnorme stralunato apologo» intitolato Bontà, il massimo esegeta di Pasolini aveva saputo per esempio spiegarci le radici psicologiche, oltre che sociali, della preannunciata deriva xenofoba e securitaria che, latente o già manifesta in altri Paesi del Vecchio Continente, aveva appena travolto, in veste salviniana, l’Italia. Catastrofe civile che egli addebitava all’imperio di un «neo-consumismo» capace, in un contesto di conclamata crisi economica, di anestetizzare i sudditi, cioè gli esponenti di una smisurata classe media impoverita, non soltanto «dal dolore», ma persino dall’irrevocabilità dei desideri individuali, tutti riconvertiti in indistinti bisogni artificiali, in ansia di vederli soddisfatti e in conseguente richiesta di protezione, sì che fosse a ciascun liberto concesso di difendere il suo residuo, fittizio privilegio sociale al cospetto di una crescente folla di paria (Siti 2018, p. 121).

«I desideri che marciscono producono odio, il cielo d’Europa è un cielo di frustrazione»: ci spiegava infatti Bontà. E il potere sapeva e sa sfruttare un simile, capillarmente diffuso risentimento. Per recuperare i lineamenti di un Moloch ingordo di sacrifici umani, gli bastava e gli basta, giustappunto, azzerare nei devoti qualsivoglia autentica passione e ogni vera spinta all’autodeterminazione, se «chi uccide il desiderio è amico di tutte le uccisioni». E se nessun «antidoto» sembrava e sembra aver più, la nostra civiltà, contro tale scivolamento in una sorta di neo-primitivismo. La letteratura stessa, in un’epoca nella quale «influire è il nuovo verbo», viene usata, si leggeva in Bontà, «come un mezzo» e non «come un fine», dunque al pari di «uno strumento per confermare», non alla stregua di «un acido per corrodere» (ivi, pp. 62, 75, 121, 87).

Lo precisa allora il suo autore stesso: La natura è innocente. Due storie quasi vere vuole anzitutto «preservare il valore conoscitivo della letteratura». E si offre, a tal fine, come primo esempio contemporaneo di «bio-fiction» potenziata, ossia di cui, a costo di peccare «contro la cronaca», si siano aumentate «l’ambiguità e il rischio operando su protagonisti viventi». Nel caso specifico, sulle vicende di due attuali quarantenni (Siti 2020, pp. 347-348).

In primis, su quella di Filippo Addamo. Spintosi, poco più che maggiorenne, a uccidere la madre, rea di aver abbandonato, per un impeto di «vitalità» e forse di «ignoranza», il tetto coniugale, in un’arroventata Catania da sempre prona a quell’inesausta forza primigenia simboleggiata dall’Etna. Quindi nelle viscere di una città infine arresasi «alla Natura», a una «vegetazione cannibale» e alla vocazione «al Nulla» peculiare della Sicilia tutta, dopo che, negli anni novanta, la «Storia» dell’Italia intera aveva cominciato a sbriciolarsi, «un’ondata di modernità e corruzione proveniente dal Nord» essendo di fatto riuscita a scardinare «i perni tradizionali entro cui da mezzo secolo oscillava la nazione» (ivi, pp. 278, 40, 264, 115).

Né Siti manca di ripercorrere la parabola di «un arrampicatore giunto vittorioso in vetta» frequentando trionfalmente i set del cinema porno per gay, proponendosi quale escort d’alto bordo e facendosi sposare da un principe, prima di ottenere contratti di docenza universitari: quel Ruggero Freddi dunque ancor più capace di incarnare l’ormai trascorsa «era berlusconiana». Presto convintosi, cioè, che «il Potere coincide con la comunicazione e la prepotenza col glamour». Sicché ligio all’idea di trasformare la sua esistenza in opera d’arte mantenendosi semplicemente «in posa ventiquattro ore su ventiquattro», ossia costruendo e vendendo agli altri un’«immagine» di sé pronta sempre a violare il «cadavere della realtà». Anche al prezzo di acuire quella sua precoce «duplicità mentale e psichica» che lo rende infine ostaggio di un paradossale «moralismo». Di un bisogno di tutelare l’assoluta, inappagabile veridicità del proprio desiderio erotico che però si traduce, in lui, in puro cinismo, giacché lo converte in un «ragioniere del sesso» soltanto incline a ricavare il miglior guadagno dalla profferta o dall’esposizione del suo corpo. E poi di uno sprezzo per «gli scandali borghesi» e di un compiacimento delle proprie «scelte controcorrente» che tendono tuttavia a rovesciarsi in conformismo, se egli resta comunque vittima della «sindrome del sono-come-tu-mi-vuoi» e di «un tremendo infantile bisogno d’essere accettato» (ivi, pp. 313, 79, 300, 292, 141-143, 150-152).

In quest’ottica, La natura è innocente vuol quindi anche mostrarci «come i marginali e gli esclusi abbiano reagito, negli anni ottanta e novanta, all’illusione di onnipotenza generata dal consumismo» e «come il culto dell’adrenalina, negli individui più inquieti, sia stato effetto e causa di un’eclissi della responsabilità collettiva». Spia, in altre parole, del collasso di una «“civiltà della vergogna”» e, ancor prima, del tramonto di una «“civiltà della colpa”», bruscamente rimpiazzate, l’una e l’altra, da una vieppiù famelica «“civiltà del sorpasso”». In seno alla quale «gli eventi tragici sono macinati in una spirale di comunicazione, ablazione e velocità», perché «tutto si supera, tutto si dimentica in un “che altro viene poi adesso?”», ed è una nuova «musa» a ispirare i comportamenti dei singoli e delle comunità: «La distrazione» (ivi, pp. 329, 270).

Se in quello, che annuncia essere «probabilmente» il suo «ultimo romanzo», Siti però si accontentasse di indagare siffatta “mutazione antropologica”, poco egli aggiungerebbe alla ricognizione da lui svolta nel miglior esempio italiano di auto-fiction: quel Troppi paradisi appunto capace di sondare l’immaginario e le logiche sociali di un’età in cui i diktat consumistici e – per dirla con Debord – “spettacolari” si offrivano quali nuovi dogmi religiosi, promettendo di gratificare, e al contempo aizzando, il «vitalismo» e «il bisogno d’assoluto» degli individui. Viceversa, le storie di Filippo e Ruggero vengono ricostruite nella certezza che i rispettivi protagonisti, pur in «modo debole e psicologicamente confuso», abbiano anticipato «l’attuale trend delle masse», le quali «pretendono di richiamarsi alla natura per sfogare la loro rabbiosa esuberanza, accusando la cultura e riducendola a proprio lacchè». In ossequio cioè all’idea che, dopo averla contrastata con la civiltà, intesa quale «forma di solidarietà difensiva» al suo cospetto, e averla infine sconfitta con la tecnica, gli occidentali abbiano dapprima preteso di costruirsi, della Natura, un mero «simulacro» – che, «a loro uso e consumo», imitasse, di quella autentica, «la persistenza e la generalità» – e siano ora giunti a presentare come “naturale” la propria inselvatichita cultura (ivi, pp. 330, 333, 329, 166-167).

In tal modo legittimata «a travestirsi da “normale sentire” o addirittura da buonsenso». A oscillare «tra nostalgie di conservatorismo reazionario e rimpianti utopisti di bontà originaria». A superare, grazie alla tecnologia, «i tabù primordiali (come l’incesto) che connettevano natura e cultura in nessi comprensibili». E, soprattutto, a guadagnarsi l’impunità, descrivendo le proprie pulsioni distruttive e autodistruttive non come esiti di una sua appunto denegata volontà di assecondare ormai inibiti desideri individuali, ma quali risvolti del complessivo vivere in ossequio a una Natura giudicata colpevole di ogni nostra scelta. Laddove – chiosa Siti, in disaccordo con Leopardi – essa è l’unica ad avere «il diritto di chiamarsi innocente perché ubbidisce a delle leggi impermeabili ai fantasmi d’armonia che vi proiettiamo», prevedendo non «progresso ma solo morte e rinascita» (ivi, pp. 168, 170, 172).

Pur impossibilitati ad affrancarsi dalla propria condizione di «reduci», Filippo e Ruggero oggi appaiono perciò, a chi ne ha interrogato le vite, «due quarantenni con un futuro aperto, disponibile e probabilmente mediano; due incipienti normalità annunciate e destinate a sbiadire nella massa». In altri termini, non già due eroi – simili a quelli «della tragedia classica», il primo, e della «commedia di costume» o del «romanzo ottocentesco delle scalate sociali», il secondo –, ma puri campioni statistici di un preteso «popolo innocente e naturale» che «aspira ai piaceri del cyber, mentre la sovranità si nasconde tra le nubi». Lo stesso popolo che, fino a ieri, ha tributato un consenso «premonitore di possibili esiti autoritari» a politici – da Salvini a Trump – abili a presentarsi, ciascuno, «come araldo del senso comune, come persona semplice e dai gusti popolari».

E che oggi, magari, imputa a un’inesistente Natura matrigna – invece che al dissesto ecologico causato dagli uomini o a una «mondializzazione» risoltasi in mera «ascesa dei grandi monopoli» – i letali effetti di quella pandemia di covid-19 superata la quale vien purtroppo facile ipotizzare che buona parte delle comunità occidentali, trovandosi verosimilmente alle prese con una terribile crisi economica, possa volersi appunto consegnare a regimi compiutamente dispotici. Destino che si fatica a non immaginare almeno per un’Italia in cui – prima della diffusione del virus e in virtù della boccata d’ossigeno garantita al Paese dalla crescita del Movimento delle Sardine – si era preso troppo frettolosamente a sancire l’inizio della parabola discendente della ricetta politico-culturale ancora preferita dalla maggioranza dei cittadini: quella all’insegna di un «sanfedismo saccente in cerca di democratura» (ivi, pp. 330-331, 171, 168, 344).

Ma, in un tempo che tanto ricorda gli anni della Repubblica di Weimar, o persino simile alla vigilia di un’apocalisse analoga a quella prefigurata, per la nostra specie, in chiusura di La natura è innocente, un’ultima verità le storie di Filippo e Ruggero sanno rivelarci, se, a ben vedere, entrambe costituiscono un «omaggio all’universale indifferenza» cui tutti siamo proni e se, in fondo, «nessuna delle due è più esemplare o tipica di nulla». Esse cioè attestano il tramonto, in Occidente, dell’individuo quale la modernità lo aveva inteso, e dunque certificano che «l’idea stessa di biografia (cioè scrittura di una vita problematica e/o esemplare) è messa in discussione in un orizzonte di greggi» (ivi, pp. 345, 332).

Di qui le succitate scelte espressive di Siti. Intanto, congedarsi da quell’auto-fiction che, specie in Troppi paradisi, gli aveva permesso di pensare il suo alter ego romanzesco come l’avatar di monadi sociali ancora illuse di potersi realizzare, in quanto individui, feticizzando i propri desideri, in una «gigantesca negazione del Padre», cioè della castrazione, in tutti indotta dal disforico edonismo consumista. E poi, nel migliore tra i suoi libri recenti, imboccare appunto la strada di una bio-fiction concepita però quale «autobiografia bifida e appaltata», con l’obiettivo sì di ritrarre, attraverso le vicende di Filippo e Ruggero, una post-umanità sempre pronta a iscriversi «nelle liste della speranza», ma soprattutto con l’intento di lasciar emergere, per contrasto, il proprio «disprezzo» di anziano verso tali, fittizi soprassalti di infantile vitalismo barbarico, il proprio «odio per la vita» e, non meno, per le «Madri». Accusate – in ragione della loro attitudine ad amare «senza limiti» i figli, della loro «continuità ricorsiva», del loro incondizionato «“sì” alla vita» – di aver finito con l’incarnare il reale stesso del capitale, giustificandoci in quella nostra spasmodica, mercificata pretesa di assoluto che, in ultimo, ci ha resi orfani di «una fisionomia», di «un profilo» (ivi, pp. 331-334, 338-339).

Riferimenti bibliografici
G. Debord, La società dello spettacolo – Commentari sulla società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
W. Siti, Bontà, Einaudi, Torino 2018.
Id., Scuola di nudo, Einaudi, Torino 1994.
Id., Troppi paradasi, Einaudi, Torino 2006.

*L’immagine di anteprima dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro. 

Walter Siti, La natura è innocente. Due vite quasi vere, Rizzoli, Milano 2020.

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