Da poco più di una settimana è uscito in libreria l’ultimo lavoro di Gian Piero Brunetta, il decano degli storici del cinema italiano. Si tratta di un’opera monumentale dedicata alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia a novant’anni esatti dalla sua prima edizione. Pubblicato da Marsilio in collaborazione con la Biennale, da agosto disponibile anche nella traduzione inglese, il volume consta di 1200 pagine sfogliando le quali si ripercorre il lungo tragitto del più antico festival del mondo, dalla sua nascita nel 1932 sotto il fascismo fino al recente arrivo della pandemia. Si tratta di un’impresa mai tentata prima, almeno nelle dimensioni e nel dettaglio raggiunto. «Non sarà probabilmente l’unica né l’ultima storia a ricostruire le avventurose vicende [della Mostra] – chiosano Alberto Barbera e Roberto Cicutto nella prefazione del volume – ma per chiunque intenda imitarne l’impresa essa diventerà un punto di riferimento d’ora in avanti imprescindibile». Senza propositi di esaustività, anzi sfruttando la frammentarietà tipica del registro degli appunti, possiamo avvicinarci in punta di piedi a un’opera assolutamente ambiziosa.
Forme raffinate di autopoiesi
Per cominciare occorre dire che il volume entra a pieno titolo tra le strategie adottate dalla Biennale Cinema per conservare la propria posizione di leadership all’interno della rete internazionale dei festival. Le qualità attribuibili – lo “spessore” del libro, la “vastità” dei temi trattati, il “prestigio” del suo autore, la “raffinatezza” della scrittura – possono agevolmente trasferirsi, tramite un processo che potremmo definire di traduzione autopoietica, alla Mostra in sé e alla Biennale che la organizza. Per «autopoiesi» (De Valck 2007; Iervese 2016) si intende infatti quell’insieme di azioni messe in atto da singole realtà istituzionali per preservarsi, perdurare nel tempo, affermare una propria identità, assicurarsi una funzione pubblica, contrastando le sollecitazioni che giungono dall’ambiente circostante e che ne possono minacciare l’esistenza. Da questo punto di vista la Mostra – che non è solo il più antico festival del mondo, ma è anche uno di quelli che gode di migliore salute – dimostra di aver affinato le tecniche di auto-conservazione e riconoscibilità culturale, come dimostra anche questo specifico caso.
L’efficacia di tale operazione editoriale si misura in almeno tre dati fattuali.
1. Dal cortocircuito che innesca e che consente di saldare il proprio posizionamento: la Mostra è contemporaneamente oggetto di studio, soggetto che cofinanzia il volume, mediatore culturale che si occupa, tramite la traduzione in inglese, di diffondere globalmente l’opera;
2. Dalla volontà di primato che afferma e che staglia, di fatto, Venezia qualche spanna sopra i suoi competitor: né Cannes, né Berlino, né altri festival vantano pubblicazioni così imponenti, non per assenza di strategie di auto-narrazione, ma perché, come ha avuto modo di affermare l’ex presidente Paolo Baratta in un volume coevo, non hanno alle spalle una fondazione come la Biennale che usa questa e altre manifestazioni (Arte, Architettura, ecc…) per rinforzare la propria leadership nell’ambito dell’industria culturale. Siamo a un’autopoiesi al quadrato.
3. Dall’allineamento di “pianeti” venutosi a creare in forme del tutto casuali e maieutiche: come ha spiegato lo stesso Brunetta, non si tratta di un’opera scritta su commissione, ma nasce spontaneamente dal suo desiderio di ricerca, dalla volontà di scrittura e dal tempo concesso dai recenti lockdown pandemici. Da qui i prodromi epifanici di un’avventura che ha condotto il più “grande” storico del cinema italiano a dedicarsi, sua sponte, al più “grande” festival del cinema italiano (e non solo), producendo il più “grande” libro mai scritto su un festival (non solo italiano). Game, Set, Match.
Un ciclo olistico
Veniamo al contenuto del libro. Brunetta sceglie di ricostruire la storia della Mostra ripercorrendone gli eventi edizione dopo edizione, dal 1932 al 2020, prendendo a «modello ideale i teleri dei grandi cicli della pittura veneta rinascimentale, la loro indipendenza nell’illustrare un singolo evento e la loro continuità narrativa e stilistica» e scegliendo come fili rossi della narrazione elementi ricorrenti come le vicende istituzionali, le scelte di programmazione, il ruolo della critica, la relazione tra i film presentati e premiati e la storia del cinema, la partecipazione di divi, autori e protagonisti della politica e così via.
Sei sono gli archi temporali scelti per definire una periodizzazione di fondo: dal 1932 al 1942 (ovvero la Mostra sotto il fascismo); dal 1946 al 1959 (dopoguerra e inizio del boom economico); dal 1960 al 1968 (emersione delle Nouvelle Vague fino al Sessantotto); dal 1969 al 1977 (gli anni di Piombo, ma anche l’abolizione del concorso e la riscrittura dello Statuto); dal 1979 al 1997 (dall’inizio della stagione del «riflusso» all’alba della rivoluzione digitale); e infine dal 1998 al 2020 (dalla «privatizzazione» della Biennale allo scoppio della pandemia da Covid-19). Emerge un’intrigante commistione di criteri che coinvolgono la storia tout court, quella giuridica della Mostra e della Biennale, quella relativa agli sviluppi tecnologici, per chiudere con il periodo della pandemia che per certi versi convoglia insieme tutte queste tensioni storicizzanti.
L’integrazione di più principi aggregativi risponde all’inverarsi di una sorta di ciclo ecologico della vita festivaliera che sembra pervenire a una dimensione olistica, nella quale anche le stagioni più “aride” partecipano alla sopravvivenza biologica dell’organismo in oggetto. È il caso, ad esempio, dei dieci anni della “Grande Rivoluzione Culturale Lidense” (1968-1978) che, come quella coeva cinese, isolò la Mostra geopoliticamente ed economicamente dal sistema internazionale, sposò in forme confusionarie alcuni ideali “rivoluzionari” (ad esempio l’abolizione dei premi, ma anche le attività permanenti nel corso dei dodici mesi), ma che lungi dall’essere separata dal resto della sua storia, ne ha in verità condizionato l’agire e la collocazione culturale, politica ed economico-industriale dei successivi decenni. Non è un caso che Brunetta sottolinei come:
L’effetto contestazione, unito alla mancanza del nuovo Statuto, e a un degrado dell’isola dovuto a un disinteresse crescente da parte delle istituzioni privano [la Mostra] dell’appeal e del suo ruolo dominante sul piano internazionale. Si apre un decennio di occasioni perdute, di decrescita, di senso di fine di un’epoca.
Ma alcune pagine dopo riporti anche una dichiarazione di Grazzini sul “Corriere della Sera” secondo cui:
Chi ha seguito gli ultimi travagli della Biennale già sa che questa edizione della Mostra del Cinema ha un carattere sperimentale, tenacemente elaborato pur nei limiti del vecchio Statuto e del vecchio bilancio [...] e c’è a tutti i livelli della Mostra e della Biennale un entusiasmo, un fervore di idee, un clima fiducioso e sereno che ha contagiato perfino i più feroci nemici di Venezia.
Insomma, come ogni ciclo di vita, anche quello della Mostra sembra dipendere da una periodicità materiale scandita da arresti, rilanci, sopravvivenze, rifioriture e così via.
Una storia senza con i nomi
Alcuni anni fa, Leonardo Quaresima aveva lanciato un progetto di ridefinizione dei canoni storiografici immaginando, un po’ provocatoriamente, di scrivere “Una storia del cinema senza nomi”. Secondo lo studioso sarebbe stato auspicabile liberarsi di alcuni modelli storiografici di origine artistico-letteraria, come quelli di autore e di opera d’arte, sostituendoli con nuclei di senso che si esplicano in forme anonime e discontinue (le warburghiane Pathosformeln, gli addensamenti e le bulimie delle culture visuali e così via). Un modo, chiosava Quaresima, per mettere in discussione «l’autore come principale istanza unificante e coesiva dell’atto espressivo e comunicativo», senza «spostare l’istanza della coerenza e della coesione da una figura all’altra: al produttore, allo sceneggiatore o al direttore della fotografia, piuttosto che al regista», ma lavorando «sull’esclusione/assenza di un principio centrale e unificante» (Quaresima 2016).
Brunetta segue la strada contraria al progetto di anonimia appena menzionato. Se è vero, infatti, che non di sole opere o di soli registi si occupa il volume, è altrettanto vero che le altre «formule di pathos» individuate dallo storico del cinema sono riconducibili a nomi propri, o meglio a soggettività materiali e proattive. Grande enfasi, ad esempio, viene assegnata al ruolo svolto dai tre “inventori” della Mostra – il Conte Volpi di Misurata, Antonio Maraini e Luciano De Feo – ma numerose pagine sono dedicate anche ad altre figure egualmente decisive come Elio Zorzi, Antonio Petrucci, Emilio Lonero, Luigi Chiarini, Gian Luigi Rondi, Carlo Lizzani, fino ai più recenti Paolo Baratta, Marco Müller e Alberto Barbera. Naturalmente essi non sono gli unici personaggi in “carne ed ossa” ad avere voce in capitolo – a registi, divi, produttori e, come vedremo, critici cinematografici è ovviamente assegnata una parte in commedia –, tuttavia quelli citati, in ragione del proprio ruolo istituzionale, finiscono per essere convocati più frequentemente di altri.
La scelta di soffermarsi sulle figure dei direttori (o dei presidenti della Biennale) non è così scontata come sembrerebbe, perché proietta un costrutto diffuso soprattutto in ambito artistico – quello del curatore di spazi espositivi o di Mostre d’Arte per l’appunto – all’interno di un dispositivo performativo più complesso, con un’azione retrospettiva che non sempre è agevole, dal momento che in passato erano altre le figure che avevano responsabilità decisionali (le associazioni nazionali dei produttori) e con una parziale sottostima di quelle che ancora oggi sono le tensioni, gli interessi di parte o banalmente gli imprevisti che influenzano le selezioni ufficiali. Il tutto si spiega in virtù di un approccio che valorizza l’apporto nominale e soggettivo alle vicende storiche. In altre parole, nella storia brunettiana, i direttori della Mostra sono «autori (curatori) in cerca di personaggi», questi ultimi incarnati di volta in volta dai grandi divi e dalle grandi dive, ma anche dai grandi maestri del cinema che hanno segnato con premi e/o polemiche le singole edizioni, da Pasolini a Pontecorvo, da Visconti a Rossellini, da Kubrick a Renoir, da Bertolucci ad Antonioni e via andando.
A porsi come ideale contraltare alla sacralizzazione dei direttori giunge un secondo nucleo discorsivo e soggettivante, forse ancora più importante, che vede coinvolta la critica cinematografica. Per molti versi, infatti, il volume si presenta anche come una sorta di storia della ricezione filmica, nel quadro dei discorsi nati all’interno della pubblicistica dedicata al più importante festival cinematografico italiano. Il festival sembra vivere, in altri termini, di una discorsività diffusa che brulica negli ambienti esterni alla sala: le code all’entrata, i casellari, gli uffici stampa, le discussioni. E se fin dai tempi di Buio in sala (1989) Brunetta si è dimostrato un attento osservatore delle dinamiche della spettatorialità, qui essa viene declinata, nelle luci del fuori sala, come una ricostruzione quasi etnografica delle vicende della critica (italiana).
Ecco che lungo i sentieri tracciati dalle mille e più pagine del volume, si inseguono e si danno il cambio in testa al plotone, come ciclisti al Giro d’Italia, grandi firme di riviste e quotidiani come Grazzini, Kezich, Pasinetti, Casiraghi, Zambetti, Tornabuoni, Aristarco, Cosulich, Farassino, Micciché e Rondi (in più ruoli), Bignardi, Barbaro, Gromo, Morandini, Ferzetti, Sacchi e così via, qui convocati grazie a numerose citazioni e precisi riferimenti alle loro posizioni di gusto, ma anche politiche e culturali. I loro interventi non sono richiamati per offrire delle note di colore sulle migliori stroncature, le cantonate più sorprendenti o le preveggenze più succose, ma rappresentano per molti versi un termometro preciso sulla capacità della cinefilia critica di reagire alle proposte filmiche della Mostra e ai quadri contestuali del momento. Da questo punto di vista, potremmo dire che uno dei più grandi meriti del lavoro di Brunetta è quello di porsi come esempio raffinato di integrazione tra i cosiddetti reception, audiences e film festival studies.
E i film festival studies?
Da ultimo viene da chiedersi se questa avventura editoriale possa rappresentare un motivo di svolta per la letteratura di settore, giustamente considerata in significativa espansione al di qua e al di là delle Alpi. È quanto indirettamente auspica lo stesso autore quando afferma che:
Il mio lavoro intende contribuire in modo costruttivo, convinto e sostanziale allo sviluppo di questo filone di ricerche in progress, cercando di fissare alcuni punti notevoli che suggeriscano questioni di metodo generale e pongano interrogativi da nuove prospettive. […] Spero d’essere riuscito a sfruttare al meglio tutte le fonti disponibili […] e a dare la misura delle dimensioni del territorio esplorato e da esplorare a chi vorrà partire per altre ricerche.
Neanche in questo caso è possibile fare previsioni su quante e quali saranno le ricerche che questo testo ingenererà. Ci sono tuttavia almeno due aspetti da tenere in considerazione.
Il primo riguarda la dimensione “solitaria” dell’impresa che appare, almeno a chi firma queste note, davvero inarrivabile per mole di conoscenze, memorie convocabili, condivisione di percorsi. Il merito e, per certi versi, l’irripetibilità del progetto consistono anche nel fatto che chi lo ha redatto è riuscito a essere contemporaneamente distante e implicato, accompagnando alla lucida oggettività dello storico la partecipazione sentimentale del testimone (e, in tempi più lontani, di collaboratore della stessa manifestazione). Per come si è sviluppato all’estero il dominio dei film festival studies, la tendenza è invece quella di crescere una generazione di studiosi che non hanno implicazioni dirette con le organizzazioni e che dunque attivano una relazione più fredda e analitica con i loro oggetti di studio. La via italiana – penso alla contemporanea e già citata storia della Biennale scritta da Paolo Baratta – potrebbe invece essere quella che implica un maggiore “calore” testimoniale delle indagini. Verrebbe da proporre, come addentellao del lavoro brunettiano, di affiancarvi una storia orale degli spettatori lagunari e dei molti altri addetti ai lavori, proprio per aumentare il pathos non delle forme, ma delle persone e delle memorie.
In seconda battuta, e non suoni come un paradosso, la mole di dati, informazioni e tracciati storici presenti nel “voluminoso volume” non esaurisce il campo di studi, anzi ne moltiplica geometricamente le possibilità di interesse. Molti aspetti qui restati giocoforza sullo sfondo si impongono egualmente e avanzano nuove domande di ricerca. Ne cito alcune a mo’ di promemoria e che coinvolgono la Mostra come anche altre manifestazioni parallele: il festival come snodo di una rete culturale, circolare, integrata e globale; come generatore di modelli transculturali; come campo antropologico ed etnografico di comunità rituali; come forza di intermediazione nell’ambito dei conflitti di genere, razza e classe sociale; come veicolo di sviluppo turistico e di operazioni di gentrificazione e così via. Linee di ricerca e promesse di scoperta che per sposare le medesime ambizioni del volume di Brunetta – mi permetto l’unica previsione – dovranno avvalersi di gruppi di lavoro più ampi e interdisciplinari.
Riferimenti bibliografici
P. Baratta, Il Giardino e l’Arsenale. Una storia della Biennale, Marsilio Editori, Venezia 2021.
G.P. Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spettatore cinematografico, Marsilio Editori, Venezia 1989.
M. De Valck, Film Festivals: From European Geopolitics to Global Cinephilia, Amsterdam University Press, Amsterdam 2007.
V. Iervese,“Form is when the substance rises to the surface”: Practices, Narratives and Autopoiesis of the Festival dei Popoli, in “Zeitschrift für Kulturmanagement”, vol. 2, n. 1, 2016.
L. Quaresima, Pour une histoire du cinéma sans noms, in “1895. Mille huit cent quatre-vingt-quinze”, n. 80, 2016.
Gian Piero Brunetta, La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022, Marsilio Editori-Biennale, Venezia 2022.