Effimero Novecento è una raccolta di nove saggi de Il Mulino che ha l’intento di raccontare un altro Novecento, quello frivolo, di costume. L’incipit dei curatori Lorenzo Benadusi, Claudio Giunta e Elena Papadia sembra provocatorio: «Chi se ne frega del costume? Lascia che se ne occupino quelli che fanno le colonnine sul “Mondo”»: l’introduzione si diverte a citare Calvino, ma ha in realtà il serio proposito di fare il punto sulle materiali trasformazioni del Novecento italiano fino agli anni sessanta. Ne viene fuori il paradosso dell’effimero, cioè che è concreto e duraturo.
È una storia che inizia in ordine cronologico: D’Annunzio è perciò la figura necessaria ad aprire il saggio. A più di un secolo di distanza, se tuttora il suo mito è deformato tra i banchi di scuola in grottesche leggende, Elena Papadia torna all’origine di queste. Del Vate non si considera l’opera letteraria o il ruolo storico, ma lo sguardo che ebbe degli italiani e che gli italiani ebbero di lui. Sono ricordati gli articoli con lo pseudonimo di Duca Minimo che con il suo estetismo, al limite del pomposo, esaltava atmosfere e sensi – poi riportati nei suoi romanzi – che al tempo plasmavano il genere del giornalismo di costume. Il dannunzianesimo era infatti «un’epidemia» che contagiava i più fragili – o forse i più moderni -: donne e giovani. Tra letture peccaminose, frivolezze e ostentazioni, questi si disfacevano «della gravitas ottocentesca» (Benadusi, Giunta, Papadia 2024, p. 44) attraverso l’esempio del Vate e del suo giovanile «fascino ambiguo dell’efebo» (ivi, p. 40).
La cronaca di costume è così consolidata e si trasforma insieme agli italiani. Irene Piazzoni, nel suo saggio, esplora due personaggi diversi che seppero incorniciare l’Italia del Ventennio in modi opposti. Di Irene Brin si riporta lo sguardo disincantato, asciutto e da «un sapore finale amaro» (ivi, p. 55). Lo sguardo della giornalista indaga le reazioni alle “frivolezze” di quei tempi inquieti: lo sviluppo del cinema, la musica dei giradischi, la radio, l’apertura dei grandi magazzini. Le donne si acconciavano come dive di Hollywood e i ragazzi parlavano con espressioni calcate sui periodici satirici. Ma se la Roma di Brin, sebbene disillusa, appare moderna, al contrario la famiglia di borghesia milanese ritratta da Novello, vignettista per La Stampa, è nostalgica e sembra ferma agli anni venti. Scrive Piazzoni: per Novello «sembra che il fascismo non esista» (ivi, p. 74) e «i riferimenti alla modernità e alle mode sono pochissimi» (ivi, p. 76).
La guerra è conclusa, è il tempo del boom. Il saggio a cura di Daniele Balicco è il ricordo della grande industria del Made in Italy in cui umanisti e artisti si prestavano al progresso e la pubblicità era racconto d’azienda ancor prima che vendita. Vi è un grande omaggio a Leonardo Sinisgalli «poeta e ingegnere, intellettuale visionario, ma di indole pragmatica» di cui ci si sofferma sul «demone dell’analogia» (ivi, p. 96), metafora di un linguaggio pubblicitario fatto di arte, industria e innovazione. La politica aziendale Pirelli, necessariamente elastica, consapevolmente artistica è messa in rilievo: dalla P allungata del logo, alla Rivista d’informazione e tecnica – altra invenzione di Sinisgalli -, dagli arabeschi degli pneumatici fino ai celeberrimi calendari. Poi la pubblicistica d’Oltreoceano ha la meglio: il linguaggio è più sintetico e l’industria italiana perde la sua estetica; la chiusura è malinconica.
Fatte le strade, le gomme e le macchine, i viaggi «Alla scoperta dell’Italia» sono ripercorsi da Claudio Giunta che individua in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, uno dei «due più importanti libri di esplorazione dell’Italia del Novecento» (ivi, p. 125) riaprendo la questione meridionale come non accadeva dai tempi di Sidney Sonnino. L’altra grande opera è Viaggio in Italia di Guido Piovene: il saggio vi si sofferma diffusamente, ricordandone l’esordio radiofonico prima della versione letteraria. Soffermandosi sulle due opere con rigore quasi matematico «esiste una funzione-Levi?» (ivi, p. 126) o «esiste una funzione-Piovene?» (ivi, p. 130), Giunta accenna una ricostruzione filologica che tenta di individuare i modelli di queste opere. Ma l’Italia del boom è ricordata soprattutto per le differenze tra Nord e Sud e il racconto di tale disparità è ancora affidato a romanzi e a cronache, come quelle di Giuseppe Berto che per trent’anni il sud lo aveva percorso e vi si era poi radicato, comprendendolo, senza infine giudicarlo. A giudicare erano gli intellettuali manichei che dividevano i cambiamenti in «modernità buona e modernità cattiva» (ivi, p. 148) quando, propone Giunta, si potrebbe «accettare, semplicemente» (ivi, p. 160).
Se l’abuso edilizio del boom trasforma le città, a mutare sono anche gli interni. Bruno Bonomo racconta il rinnovato ma paradossalmente antiquato gusto dei nuovi ricchi, i quali, spesso privi di cultura, non distinguono il Barocco dal Quattrocento, un mobile stile Luigi XVI da un inesistente «Luigi XVII» (ivi, p. 176). A deridere i loro eccessi e le pressioni a cui sottoponevano raffinati ma servili antiquari e arredatori, sono ancora le cronache di costume. Le stesse trattate anche dal saggio di Fabio Andreazza che racconta gli atteggiamenti del divismo italiano. I «Miracolati del cinema» sono dive e divi che, ascesi a una condizione più agiata, rivendicheranno le umili origini, come Elsa Martinelli o Sophia Loren, o, nel caso di Virna Lisi, si adegueranno al nuovo status. Ma nel moderno il successo è precario: così le maggiorate italiane dovranno in pochi anni cedere ai francesi, alle rigide forme di Dior o all’influenza di una diva emancipata come Brigitte Bardot. Ogni cronaca è mediata dal suo pubblico: più popolari, le lettrici di Annabella apprezzano un divismo che non si allontana dalla morale della povertà, mentre le benestanti lettrici de L’Espresso non disdegnano le frecciate rivolte alla volgarità. In quest’ultimo intento la penna tagliente di Oriana Fallaci, che da Hollywood aveva descritto il divismo americano, sarà perfetta per descrivere l’antidivismo italiano.
Andrea Minuz racconta l’arrivo della televisione: si tratta ancora di un viaggio da Nord a Sud. Sono a nord, inizialmente, i principali studi televisivi ed è il nord che può permettersi i primi apparecchi. Nel sud invece, comunità rurali si affolleranno ancora per lungo tempo intorno a un solo apparecchio. Il passaggio da nord e sud è anche nei protagonisti dello schermo, dal Milanese-Americano Mike Bongiorno «l’italiano medio» (ivi, p. 296), al romano Mario Riva, per Buzzati «uno di quegli uomini che incontriamo sul tram» (ivi, p. 303), metafora di una Rai che confermerà Roma nel ruolo di capitale. Il racconto mediatico del suo funerale, nel 1960, è per Minuz conferma dell’impatto che la tv aveva ottenuto sul popolo italiano. Mentre i giornali scrivevano e gli intellettuali giudicavano, la massa si abbonava: così anche l’Italia si plasma sulla televisione.
Per Corrado Alvaro, ricorda Lorenzo Benadusi, è come se il Novecento «prenda avvio in ritardo di cinquant’anni» (ivi, p. 241), ma questa tarda modernità sembra portare con sé anche deprecabili conseguenze, quali l’idea di allontanare il sesso dall’amore. Con queste premesse si avvia il saggio dedicato all’elemento forse più erroneamente centrale nel concetto di effimero. L’erotismo, raffinato gioco aristocratico a inizio Novecento, è ora argomento di massa e di mass-media. Benadusi ricorda il primo dibattito sull’educazione sessuale, oggi fermo nel ristagno di allora. Il saggio riporta le opinioni di alcune intellettuali del tempo, a volte in piacevole contrasto con le opinioni maschili: si considerino quelle di Indro Montanelli che riguardo all’educazione sessuale risulta spaventato più che conservatore.
Ma se la modernità è ora ufficialmente parte dell’Italia, Effimero Novecento si conclude domandandosi sul punto di vista dei conservatori. Anna Baldini adotta così l’intelligente soluzione di comparare testate conservatrici diverse. “Il Borghese” di Leo Loganesi ha uno sguardo moralistico sulla liberazione dei costumi femminili, sulla ricerca di fama e di denaro, sulle nuove tendenze di arredamento (privato o pubblico). “Lo Specchio” dai toni più leggeri, insiste altrimenti sugli scandali di cronache nere, sui rischi dell’abolizione delle case chiuse, sulla devianza del “terzo sesso”. Secondo Baldini, entrambe le testate hanno un comune nemico: il consumismo di massa “democratico”. Ma le moderne tendenze traggono in inganno anche i detrattori che, pubblicando foto ritraenti gli esempi da deprecare, «finiscono per consolidare quel processo di “liberalizzazione della pornografia”» (ivi, p. 322) da loro tanto demonizzata.
Il risultato di Effimero Novecento è una raccolta di saggi talmente coerenti da sembrare un’unica voce in un comune bagaglio di fonti. Di questo Novecento prevalgono le immagini: grafiche pubblicitarie, vignette satiriche, paesaggi in trasformazione, abiti, acconciature… La cronaca del tempo, come cinema, dirige un lungo film sulla società italiana. Il moderno effimero porta con sé l’esplosione dei principali elementi che la storia ha a più riprese cercato di coprire: le donne e il sesso. Le donne del Novecento non si limitano a essere portatrici sane di “effimero”, ma sono le più affidabili esperte di modernità. Tra queste, l’alternarsi dei saggi eleva due assolute protagoniste: Irene Brin e Camilla Cederna, elette così le migliori narratrici del Novecento Effimero.
Lorenzo Benadusi, Claudio Giunta, Elena Papadia, a cura di, Effimero Novecento, il Mulino, Bologna 2024.