Ancor prima che essere un film, Stranizza d’amuri è, com’è noto, il magnifico brano in siciliano che conclude l’album L’era del cinghiale bianco (1979) di Franco Battiato, dove il cantautore racconta la forza di un amore capace di emergere nonostante l’orrore circostante, di una potenza di vita che esplode «ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra […] ccu tuttu ca fora si mori». Se è vero che la canzone, come scrive Fabio Zuffanti, «è una celebrazione a ciò che non si lascia scalfire nemmeno dalle avversità più negative» (Zuffanti 2020), lo stesso potremmo dire del primo film da regista di Giuseppe Fiorello che – passando per l’ispirazione letteraria del romanzo Stranizza (2013) di Valerio la Martire – assegna al proprio esordio cinematografico gli oneri dell’omonimia con il brano del musicista siciliano.

Tale scelta è dunque di fatto una dichiarazione di poetica che pone quasi in secondo piano l’afflato civile del film che, prima ancora che nei terribili fatti di Giarre (l’omicidio omofobo di due ragazzi che incoraggiò la nascita del primo circolo Arcigay), pare ritrovare nella dichiarata filiazione cantautorale le proprie ragioni elaborative profonde. Ciò che Fiorello sembra voler raccontare riguarda infatti, innanzitutto, la messa a confronto tra la meraviglia dell’amore e la mostruosità del mondo, ponendo per lunghi tratti il dato dell’omosessualità dei protagonisti quasi in secondo piano rispetto alle ragioni di un’immagine dell’amore – discreta, delicata, mai pruriginosa – che tuttavia non può eludere la crudeltà di quel reale che lo spunto diegetico chiama in causa.

Non ci sono tuttavia eserciti né trincee nell’estate siciliana della Coppa del Mondo ’82 che fa da sfondo alle vicende di Stranizza d’amuri (2023), ma solo una ben più subdola e diffusa banalità del male compenetrata al tessuto sociale di un mondo fondato sul patriarcato e sulla sopraffazione. Siamo qui ben lontani dal contemporaneo contesto settentrionale, borghese e intellettuale, di Chiamami col tuo nome (Guadagnino, 2018), e sono proprio le deplorevoli storture socio-culturali di questo ambiente ad essere, per tutta la prima parte del film, approfondite anche attraverso la contrapposizione con le bellezze del paesaggio siciliano che Nino attraversa in sella al suo motorino. Quella in cui i due giovani si ritrovano ad esperire la meraviglia che li riguarda è infatti una società profondamente e meschinamente omofoba, e in quanto tale inevitabilmente segnata sin da subito, come suggerisce la sequenza iniziale, da un destino mortifero. La caccia al coniglio che apre il film è qui infatti – lontana eco di quella de La regola del gioco (Renoir, 1939) – un chiaro presagio di morte che stringe immediatamente il proprio nesso con il regime di mascolinità tossica che regolamenta in profondità i rapporti sociali dell’umanità rappresentata dal film.

“Ce li hai i coglioni o sei una ‘fimminedda’?”, inveisce lo zio di Nino contro il nipotino più piccolo, colpevole di rifiutarsi di andare a raccogliere il cadavere della preda, mentre successivamente un secondo zio, più giovane e aitante, racconta di “puntare” le femmine, prede anche loro tanto quanto i conigli. Gli animali come le donne sono per questi uomini oggetti che esprimono un’alterità attraverso cui il maschio può costruire per sé un «corpo simbolico» (Cimatti 2013, p. 36) che trova nella società patriarcale le più profonde ragioni del proprio dominio. Se da un lato le donne (le due madri) sono dunque relegate tra le mura domestiche, dall’altro il biopotere del patriarcato non può che esprimere una condanna a morte per quei giovani corpi che deviano dalle sue leggi. Così, come nel brano di Battiato, il film di Fiorello articola dunque una evidente contrapposizione tra la purezza dell’amore omosessuale e la descrizione di un contesto abitato da una ferocia che tuttavia pare sussistere come uno stato di cose “naturale”: il bullismo omofobo nei confronti di Gianni è per lo più accettato dalla comunità che si raduna attorno ai tavolini del bar, mentre la famiglia di Nino è genuina e amorevole finché non si scontra con qualcosa – l’indefinibile differenza che contraddistingue la vita – che è ritenuta essere inaccettabile.

La sincerità di un amore che, nella scoperta stessa del proprio piacere sessuale, si fa emblema di quel «sentimento in cui prende forma l’alterità che abita il soggetto stesso» (De Gaetano 2022, p. 12) è dunque esaltata dal film attraverso il contrappunto offerto dalla degradazione del sentimento amoroso che le famiglie dei protagonisti rappresentano. L’aridità di una sessualità fallocentrica da un lato (la madre di Gianni e il suo compagno, interessato soltanto a disporre del corpo della donna a proprio piacimento) e, dall’altro, una coppia «orientata verso il trascendimento di sé nei figli e nella proprietà » (ivi, p. 17) dove «il matrimonio definisce una sorta di ordine naturale nel legame tra sessualità e socialità» (ivi, pp. 17-18), rappresentano i due versanti di una normalizzazione del sentire a cui l’amore di Gianni e Nino si oppone come una potenza che «sospende posizioni sociali, distanze anagrafiche e ruoli simbolici» (ivi, p. 36). Come scrive ancora Roberto De Gaetano:

Le abitudini del quotidiano, le logiche binarie che definiscono le situazioni date […], possono interrompersi solo per un urto. L’incontro d’amore è il nome di tale urto. “Incontro” è il nome che diamo quando ci accade qualcosa che sospende l’ordine delle cose, e un mondo nuovo si apre […] che mette in questione quello a cui eravamo abituati (ivi, p. 25).

Quest’urto – che in Stranizza d’amuri assume l’icastica forma di un incidente in motorino – è di fatto ciò che segna il passaggio dalla prima alla seconda parte del film, è ciò che ha la forza di istituire un nuovo reale. Il mondo terrestre dei Padri, dominato dalla pulsione di morte, si disgrega progressivamente per lasciare spazio alla forza di vita che vige nello spazio acquatico in cui i giovani amanti trovano rifugio da una società che vorrebbe disciplinarne le esistenze. Il fiume si fa dunque per Gianni e Nino un luogo spiccatamente simbolico, «limen di passaggio da uno stato all’altro» (ivi, p. 45), ambiente liquido che, per dirla con Deleuze, si configura «non soltanto come un oggetto di percezione particolare, ma anche come un sistema percettivo distinto dalle percezioni terrestri, un “linguaggio” differente dal linguaggio della terra» (Deleuze 2016, p. 98) in cui l’interdetto sociale cede il passo al libero gioco amoroso.

E tuttavia, fuori dall’acqua, la crudele Legge dei Padri torna implacabilmente a imporsi. Dopo un bagno al fiume, le due mani che incerte si sfiorano rivelano allo spettatore un’ultima fugace immagine d’amore che viene improvvisamente inghiottita dalla terribile esplosione di due spari, tragico segno sonoro di una morte aberrante che sfugge al visibile come a qualsiasi retorica. Il finale, insieme alla tanto attesa canzone e alle didascalie che ci riportano alla realtà storica di quell’orrore, dedica le ultime inquadrature ai luoghi del film senza più i suoi personaggi, spazi svuotati da un’azione che cede il passo all’immobilità di un mondo che, ormai privo delle marche della finzione, non può che apparirci ancora, drammaticamente, fin troppo simile al nostro.

Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013.
R. De Gaetano, Le immagini dell’amore, Marsilio, Venezia 2022.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
F. Zuffanti, Franco Battiato. Tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019, Arcana, Roma 2020, ebook.

Stranizza d’amuri. Regia: Giuseppe Fiorello; sceneggiatura: Giuseppe Fiorello, Andrea Cedrola, Carlo Salsa; fotografia: Ramiro Civita; montaggio: Federica Forcesi; musiche: Giovanni Caccamo, Leonardo Milani; interpreti: Samuele Segreto, Gabriele Pizzurro, Simona Malato, Fabrizia Sacchi, Enrico Roccaforte, Antonio De Matteo, Roberto Salemi; produzione: Fenix Entertainment, Ibla Film; distribuzione: BiM; origine: Italia; durata: 130’; anno: 2023.

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