Al termine de La mente inquieta c’è un apparato iconografico, che va dal Trittico del carro di fieno di Hieronymus Bosch (1516) all’affresco de La Pace di Lorenzetti, particolare dall’Allegoria del Buon Governo (1338-39). Tra questi due estremi, troviamo tra le altre immagini una pittura murale dedicata a Francesco, presente all’interno del Santuario del Sacro Speco di Subiaco, il Masaccio della cappella Brancacci e il Donatello del Profeta Abacuc (detto lo Zuccone), i Tre filosofi di Giorgione e un disegno dell’Alberti dedicato al proprio emblema, l’occhio alato. Cacciari costruisce un montaggio di stampo warburghiano-godardiano, che non si pone come mera appendice visiva, ma come una costellazione di immagini che, nella loro tensione antinomica, nel loro richiamarsi o contraddirsi, al di fuori di una semplice successione diacronica, alludono allo stesso fine: immaginare vera Pace, senza nascondere ai nostri occhi il vortice in cui consiste ogni uomo, privo di una salda natura ontologica e quindi di una sede stabile, ma puro possibile, esperimento.

Tale costellazione pone il problema che attraversa La mente inquieta: pensare per immagini. Il pensiero non cerca nell’immagine un travestimento, un modo che giunge a posteriori per illustrare l’idea, ma è il pensiero stesso che prende origine e cerca di dare forma a un thauma, a una visione che colpisce, che atterisce, che inquieta. Da una parte allora si tratta di risalire al principio, all’origine: è tale ascesi che impedisce alla radice di concepire il pensiero nella forma di una ripetizione dell’identico, dell’essere-sostanza. Si tratta cioè di riattraversare il problema teologico-filosofico dell’inizio, che è ciò che Cacciari ha fatto nella sua produzione maggiore, da Dell’Inizio a Della cosa ultima e Labirinto filosofico, e che qui affronta a partire da un dialogo con il De ente et uno (1492) di Pico, ma che coinvolge Ficino, Bruno, Cusano. È la tradizione del neoplatonismo rinascimentale, che cerca di pensare l’Uno come quell’Ineffabile sovra-essenziale, a cui rimanda l’Uno-che-è, ossia l’Uno che informa di sé i Molti, evitando di ridurre-annichilire le diverse singolarità, ma cercando tra di loro il riconoscimento reciproco, il dialogo anche polemico. È quell’Uno sovra-essenziale che impone un lavoro analogico del pensiero, che cercherà di approssimarsi a una fonte che rimane inattingibile, e rispetto al quale il linguaggio della verità non potrà mai essere mimetico. Tali profondità dell’Uno potranno essere speculate nell’immagine, ossia in forme che riconoscono la propria alterità rispetto a quell’inizio.

Dall’altra parte, e su questo Cacciari insiste nel suo percorso attraverso la costellazione dell’Umanesimo, si tratta di riconoscere la valenza estetico-politica di tale paradigma. Ciò significa in primo luogo ricondurre alla dimensione filosofica appropriata le due interpretazioni abituali dell’Umanesimo, quella in chiave artistica e quella in chiave filologica, che ne hanno poi condizionato la ricezione negli ultimi secoli, riducendolo erroneamente a momento preparatorio di una scuola, l’idealismo, che secondo tali approcci è delineato come scuola filosoficamente più consapevole.

La parola dipinge: questa la tesi fondamentale. Il linguaggio non è mera riproduzione denotativa, non è soltanto trasmissione d’informazioni, ma atto formativo, che reagisce all’evento. È superbia rivolgersi alla lingua, come se fosse semplicemente uno strumento nelle nostre mani: l’ego cogito appoggia sulla dimensione intersoggettiva del linguaggio, che a sua volta orienta l’attività dell’Io su una passività originaria, quella della lingua nella quale siamo accolti: nos loquimur et locuti sumus. Noi siamo parlati, ed è il nostro agire, nell’orizzonte del Comune, a trasformare la lingua. Il poeta esibisce questa capacità formativa, che non è dominio della cosa, non è invenzione mitopoietica, ma appunto reazione a un pragma, a un fatto, a partire dalla consapevolezza, dal risveglio, a cui ci educano i migliori fabbri, quei testi che con più energia hanno saputo rispondere al dramma del proprio tempo.

Tutta la filosofia del linguaggio del Novecento, da Heidegger a Wittgenstein, trova nell’arco che va dal De Vulgari eloquentia (1303-1305) di Dante alle Dialecticae disputationes (1439) di Valla il suo riferimento sempre sottaciuto. In quanto immagine, la parola non ha significato univoco. Va in primo luogo amata, curata, quindi interpretata, in un percorso che ha nel latino il riferimento imprescindibile per educare a una forma, a una chiarezza di rappresentazione, che ci tragga fuori dalla decadenza del parlare confuso e disordinato. La filologia è via che conduce alla critica, al riconoscimento dell’accento della propria singola parola, proprio lì dove ricostruisce la trama che la lega alle parole di quel passato che ci sovrasta. Alla critica non tocca perciò riprodurre l’idea che la precede, ma piuttosto aiutarla a concrescere, a produrre effetti, a farsi tradizione. Il lavoro del filologo-critico è un compito di traduzione, di decisione per uno dei percorsi che quelle parole che ci precedevano rendevano possibile. E in questo caso sono invece le grandi riflessioni sul compito del traduttore, da Benjamin a Ricoeur, ad aver mancato il confronto con tale linea del pensiero umanista.

Dall’orizzonte disegnato da Cacciari emerge la valenza politica della filologia, preludio alla speranza di Pace. Essa è capacità di riconoscere nella distinzione, nella chiarezza estrema della distinzione, ciò che lega all’altro. Questo era lo sforzo del pensiero italiano, da Dante a Machiavelli, mentre infuriavano conflitti e guerre in Italia. Questo è il compito che attende oggi l’Europa, se ricolleghiamo questa perlustrazione dell’Umanesimo al dittico dedicato da Cacciari all’idea di Europa (Geofilosofia dell’Europa, L’Arcipelago), dove già ritrovava nell’orizzonte del neoplatonismo, in particolare nel De pace fidei (1453) di Cusano, la condizione per immaginare l’unità di distinti. Per immaginare quella pace a cui guarda Lorenzetti nel suo affresco del Buon Governo, riconoscendela però come soltanto un possibile, come una figura che siede a parte e che nessuno all’interno dello spazio comune riesce a raggiungere o toccare.

Lì dove altre tradizioni si incamineranno verso la logica dello Stato sovrano, proprio la debolezza politica italiana, che ha anche comportato l’assenza di una religione civile (Leopardi), ha però permesso di pensare la forma del comune come apertura del singolo verso un’universalità sempre in corso di ri-definizione e sempre da tradire. L’identità del comune è perciò non un’idea astratta, eterna, sempre presente a sé, che la lingua e le immagini devono riflettere. Il popolo è immagine che tiene insieme distinti, singoli, i nostri umili volgari, legati da una memoria comune, una tradizione, un latino, e che nel conflitto riescono a intravedere un progetto condiviso. Ciò da una parte implica che ogni comunità è immaginaria; dall’altra che ogni comunità è da immaginare.

Il cinema italiano ha immaginato questa comunità e continua a farlo quando si interroga sul confine sempre da attraversare che dovrebbe dividere il noi da loro, come nella virgola che divide e congiunge Santiago e l’Italia nell’ultimo film di Moretti. È un orizzonte politico, che non implica appartenza a un’ideologia, ma riconoscimento di una comune provenienza, quella lingua affluita nelle immagini, come ne parla Godard in un episodio delle sue Histoire(s) du cinéma, La monnaie de l’absolu (1995), splendido omaggio/”resto” al cinema italiano, al cinema di uomini senza uniformi sempre pronti a tradire, a superare il confine che divide il noi dal loro, per riportarci così a quel vortice che è appunto la nostra natura umana, sospesa tra bestialità e divino, tra miseria e splendore. E pagando il suo debito, il suo resto, a quella grande stagione del cinema italiano, quella che va da Roma città aperta a Pasolini, Godard non casualmente ne lega il risveglio, il rinascimento, a quello sguardo che proviene dai tempi dell’Umanesimo, a quegli occhi pensanti di  uno dei tanti volti misteriori che animano La leggenda della vera Croce (1452-1466) di Piero della Francesca. Un pensiero che forma, una forma che pensa, ripete più volte Godard, montando quello sguardo enigmatico con il volto inquieto di Pasolini, i cui occhiali scuri riflettono lo splendore dell’icona di Piero. È quello sguardo a immaginare l’Italia.

Riferimenti bibliografici
M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino 2019.

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