Il punto è come sviluppare espressivamente un tema. In teatro come altrove. Questione tanto più importante quando si parte da un classico e da una tradizione ingombrante che ce lo ha tramandato. Si tratta in questo caso della Locandiera di Carlo Goldoni, con la regia di Antonio Latella e l’interpretazione di Sonia Bergamasco (visto al Teatro Argentina di Roma).

In quale posizione collocarsi per rendere l’“ora” il tempo in cui è possibile leggere ciò che è stato fatto “allora” (per riprendere un lessico benjaminiano)? Non tanto quella che permette di attualizzarlo, travestendo personaggi ed ambienti con i costumi e le forme dell’oggi. O perlomeno non solo. Si tratta di vedere la locandiera come un personaggio d’oggi, cogliendone la sua radicale modernità a partire da ciò che ne fa il primo grande personaggio femminile della tradizione teatrale e letteraria  italiana, sottraendolo al destino di maschera. Questo significa liberare Mirandolina da tutte le tracce che ne hanno fatto la maschera di una seduttrice, capace di attrarre e respingere gli uomini che l’attorniano, gli avventori della locanda, rappresentanti di una borghesia in ascesa nella Venezia del Settecento.

La messa in scena di Latella, con il lavoro di dramaturg di Linda Dalisi, restituiscono con un gesto chiaro Mirandolina alla storia di un personaggio teatrale femminile che fa il suo gioco. Ma qual è il suo gioco? E dove si colloca?  

Nello spettacolo c’è una breve scena in cui Mirandolina balla da sola con una musica techno, sotto le luci al neon, con alle spalle l’anonimo fondale del muro di una locanda d’oggi. La scena è rivelatrice di una solitudine che lo stesso Goldoni aveva affidato ai pensieri e alle parole di Mirandolina, «Son sola, non ho nessun dal cuore che mi difenda» (Goldoni 1983, p. 84).

L’indipendenza rivendicata ed attuata da Mirandolina la porta a sottrarsi al ruolo di oggetto del desiderio altrui, del Marchese di Forlipopoli e del Conte di Albafiorita; il primo a rappresentare il prestigio di una nobiltà decaduta, il secondo quello di una nobiltà acquisita col denaro. E sembra entrare in crisi solo davanti al Cavaliere di Ripafratta, il “disprezzator delle donne”, nei confronti del quale Mirandolina si trasforma in «incantatrice Sirena», come ci dice lo stesso Goldoni nella prefazione destinata al lettore.

Nello spettacolo emerge una seconda scena in cui Mirandolina, nuovamente sola dopo aver conquistato Ripafratta per confermare il suo potere di attrazione, si trova ad abbracciare il cappotto dell’uomo e a tenerselo sul ventre. Gesto di inclusione dell’altro di tipo melodrammatico, dove scaltrezza e cinismo cedono il passo al dolore per la perdita di qualcosa di non mai posseduto. E dove a conquista avvenuta segue la malinconia della perdita.

Il gioco di Mirandolina è dunque conquistare indipendenza e libertà. Ma gli effetti del gioco sembrano essere diversi. La libertà acquisita è circoscritta, segnata dall’ambizione piccolo-borghese di mantenere il controllo della proprietà preservandone il valore. E per superare i rischi della “solitudine” Mirandolina deve approdare al matrimonio di interesse con Fabrizio, il cameriere della locanda per “mettere al coperto il mio interesse e la mia riputazione”.

Un approdo che corrisponde al desiderio e al volere del padre. Dunque la locandiera sceglie senza veramente scegliere. La sua è la scelta del padre. E un terzo quadro, prossimo al finale, ben sintetizza questo. Vediamo Mirandolina di spalle su uno sgabello, osservare gli uomini di fronte a lei, respinti, raggirati, dominati, sposati per interesse. La sua distanza è grande.

Mirandolina è un personaggio e non un maschera (a cui anche allude il titolo dell’opera). Le azioni che compie non imitano il suo carattere (come per i personaggi maschili) ma lo determinano. I sentimenti, i desideri, i rifiuti, gli interessi che attraversano il personaggio lo plasmano, rendendolo complesso e ambivalente e non univocamente leggibile. Rifiuta i nobili e sposa la servitù, ma più come corrispondenza ad un destino che come gesto di rivolta.

Mirandolina è fredda, distante, cinica, sempre comunque seducente, ma anche tormentata, a volte disperata, fondamentalmente sola. E il suo spazio di libertà, affermato con capacità senza pari, resta comunque lo spazio immaginato dal padre per custodire la proprietà. La locandiera è una commedia scettica. La commedia di una borghesia allo sbando, incapace di credere e affermare alcunché. I cui gesti sono esclusivamente orientati alla pretesa fallimentare del controllo e del dominio delle proprie vite e di quelle altrui. E l’apparente happy end matrimoniale finale, annunciato, avviene in solitudine, senza plauso sociale.

Questa complessità di sentimenti ed interessi è restituita con grande forza, toccando diverse sfumature espressive ed emotive, da Sonia Bergamasco, che entra in scena scalza e con una veste corta e bianca, e si ritrova tra cavalieri e conti in tuta ed infradito, con fornelli accesi ed odori che si spandono per tutta la platea. E la locanda è un luogo-mondo (ispirato, ci dice Latella, da Café Müller di Pina Bausch), in cui il teatro della vita diviene il modo stesso in cui una vita prende forma. Indossare una maschera in forma esplicita, come le attrici Ortensia e Dejanira che simulano di essere nobildonne, e la seconda perfino un orgasmo al tavolino (in stile Harry, ti presento Sally), o in forma implicita come fanno tutti gli altri attori in scena, diviene il modo in cui in una commedia viene plasmata la vita.

Ad eccezione della locandiera, che è capace, solo lei, per controllare gli altri, se stessa ed il mondo, di non coincidere con nessuna maschera (neanche con quella di prototipo di donna libera), ma di divenire un personaggio complesso, e in questo radicalmente moderno, plasmato anche da ciò che eredita: i valori e il mondo della piccola-borghesia a cui appartiene, e il dettato del padre che ne segna desideri ed obiettivi.

*La foto in copertina è di Gianluca Pantaleo.

La locandiera. Testo: Carlo Goldoni; regia: Antonio Latella; dramaturg: Linda Dalisi; scene: Annelisa Zaccheria; costumi: Graziella Pepe; musiche e suono: Franco Visioli; luci: Simone De Angelis; interpreti: Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo, Valentino Villa; produzione: Teatro Stabile dell’Umbria; durata: 150′.

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