Negli Stati Uniti sta facendo molto rumore la notizia che dopo 53 anni di prigione è stata concessa la libertà vigilata a Leslie Van Houten. È un caso unico, perché gli altri membri della Manson family sono morti in carcere (Manson e Susan Atkins) oppure stanno ancora dentro (Charles “Tex” Watson e Patricia Krenwinkel). Tra chi si è opposto alla scarcerazione c’è il governatore democratico della California: i parenti delle vittime, ha detto, non hanno smesso di soffrire, inoltre Van Houten non ha mai dato una spiegazione convincente delle proprie azioni. E senza una spiegazione, a quanto pare, non c’è pentimento né libertà.
All’epoca dei fatti Van Houten aveva diciannove anni. Non partecipò al famigerato eccidio dell’8 agosto 1969 in una villa di Los Angeles, a Cielo Drive, dove persero la vita cinque persone tra cui la donna più bella del mondo, Sharon Tate. C’entrava invece con la morte dei coniugi LaBianca, proprietari di piccoli supermercati, uccisi il giorno dopo. Siccome la polizia aveva trovato corpi torturati e impiccati, i giornali parlarono subito di ritual murders e sette sataniche. La popolazione della metropoli californiana, amichevole e rilassata per natura, divenne tremebonda e sospettosa. Nessuno sapeva dove e quando gli assassini avrebbero colpito di nuovo. Soprattutto, nessuno sapeva il “perché”.
Il movente dei delitti venne ricostruito per la prima volta dal pubblico ministero del processo, Vincent Bugliosi: Charles Manson aveva progettato di scatenare una nuova guerra civile americana. Sperava che la colpa degli omicidi sarebbe caduta sui neri provocando l’ira dei bianchi e questo avrebbe dato inizio a una lotta tra razze. I neri, più forti, sarebbero usciti vincitori, però, incapaci di darsi una organizzazione politica, avrebbero dovuto rivolgersi agli unici bianchi superstiti, Manson e il suo gruppo, facendone i loro capi. Va da sé che il progetto appare da cima a fondo come un delirio cialtronesco. Però Bugliosi aveva bisogno di qualcosa che giustificasse l’imputazione di conspiracy, l’unico modo per spingere la giuria a emettere una sentenza di morte (come infatti avvenne, però nel 1972 la California abolì la pena capitale e le sentenze divennero ergastoli). Più tardi anche Van Houten cominciò a diffondersi in dettagli sempre più improbabili – come il buco scavato nel deserto della Death Valley dove la “famiglia” doveva nascondersi e aspettare la fine della guerra – ma è evidente che per uscire di galera l’ultima cosa che dovete fare è smentire i giudici che vi ci hanno mandato. La madre di Sharon Tate, giusto per fare un esempio, ha detto che la tesi dell’accusa era fuffa. In realtà nessuno tra quelli che si sono occupati con qualche serietà del caso Manson si è lasciato persuadere dalla teoria di Bugliosi.
Un’ipotesi diversa – ce ne sono tante – è che le mattanze dell’8 e 9 agosto servivano a Manson per scagionare un amico, Bobby Beausoleil, arrestato pochi giorni prima per aver ucciso con particolare efferatezza uno spacciatore. I nuovi, analoghi, omicidi dovevano far credere agli investigatori che il vero responsabile era ancora a piede libero e Beausoleil innocente. Lo disse il diretto interessato in una intervista fattagli in carcere nel 1973 da Truman Capote. Al di là di tutte le ipotesi possibili e immaginabili, si tratta di capire se la verità appartiene ai risultati di un processo penale e alle rivelazioni di qualche “pentito” o se invece resta mille miglia lontana dalle requisitorie dei procuratori e dalle pretese di chi, come l’attuale governatore, rimprovera a Van Houten di non avere confessato per filo e per segno le cause delle sue azioni. Il movente di un delitto non è la sua verità. Le cause spiegano qualcosa, la verità, invece, ce lo fa comprendere. La verità è che i delitti di Manson furono l’ultima tappa in una inconsapevole progressione di violenza e paura. La paura è la forma fondamentale dell’esistenza mansoniana. Spinta all’eccesso, la paura trasforma la coscienza portandola alla sua ultima intensità: la paranoia. Lo dice Manson in una intervista del 1970:
Hai mai visto il coyote nel deserto? Scruta sintonizzato con ciò che lo circonda, con piena consapevolezza. Cristo sulla croce, il coyote nel deserto: è la stessa cosa, amico. Il coyote è bellissimo. Si muove nel deserto con delicatezza, consapevole di tutto, guardandosi intorno impaurito. Sente ogni suono, annusa ogni odore, vede tutto ciò che si muove. È in uno stato di paranoia totale, e la paranoia totale è totale consapevolezza.
Non solo il coyote e Cristo, anche il neonato – continua Manson – vive in una paura che è lucidità superiore, vede il mondo con occhi che non sono umani ma sono gli occhi del mondo. Purtroppo quando cresce i genitori gli insegnano a dire “io” e mettono nella sua testa tutte idee sbagliate. Old ego is a too much thing, “il vecchio ego è davvero troppo”, dice una canzone di Manson. Il compito della family era provocare il panico bambino di una nuova umanità.
La comune di Spahn Ranch, dove la family visse tra il 1968 e il 1969, aveva alla base un infantilismo presentista. Per entrare a farne parte bisognava gettare alle ortiche orologi, radio, libri, tutte le parole e gli strumenti che fanno vivere nel passato e nel futuro allontanandoci dal presente. «La verità è ora, la verità è qui. La verità è il minuto presente nel quale esistiamo». Suona come l’insegnamento di un monaco zen e invece è Charles Manson. Per superare il tedio del “prima” e del “dopo” bisogna uccidere l’adulto interiore che ha rovinato la dedizione puerile. Die, Leslie, do die, «Coraggio Leslie, muori», canticchiava Van Houten in quei giorni. Solo dopo avere sacrificato l’io sull’altare del presente potremo abbandonarci con tutte le forze al mondo, finendo, così, col diventare il mondo.
I mezzi per ritrovare la semplice coscienza dell’adesso erano le droghe lisergiche, la musica rock, le orge e il creepy crawling. Le prime tre sappiamo grossomodo cosa sono, l’ultima richiede un chiarimento. Creepy crawling è il fastidio misto a inquietudine che ci danno gli insetti quando si arrampicano sul corpo. Nella family divenne il nome di un passatempo abbastanza frequente: penetrare nelle case di quelli che dormono per metterle a soqquadro e poi scappare. Era cominciato come un gioco da teppistelli e divenne a poco a poco una cosa diversa, un modo per instillare la paura in chi il giorno dopo si sveglia con le suppellettili fuori posto e fare capire ai bravi cittadini che nemmeno a casa sono soli, perché tutto-è-connesso-con-tutto ovvero, come recita una nenia di Manson, all is one, tutto è uno. Davanti al disordine non ci raccapezziamo, siamo smarriti, ma lo smarrimento diventa una nuova consapevolezza, la paranoia, appunto, che toglie le palpebre agli occhi, fa tendere le orecchie in ogni direzione e sobbalzare al minimo scricchiolio. Per spaventare una persona basta sconvolgerle l’arredo, per tenere sveglia una città bisogna convincere gli abitanti che se ti addormenti puoi essere ammazzato. «Ogni volta che dormi, distruggo il mondo»: non è la promessa di una guerra a venire, perché ciò che conta è la paura che qui e ora ci costringe a una veglia ininterrotta. La guerra di Manson era uccidere il sonno.
Dagli appartamenti messi sossopra ai corpi martoriati il passaggio non è immediato. Per arrivarci fu necessario un anno intero di vita insieme. Ma la progressione del gruppo, per quanto lenta, fu inarrestabile e rimase oscura anche ai protagonisti. «Non so dire quando esattamente le cose iniziarono a peggiorare», disse Van Houten a un intervistatore, «il fatto è che nemmeno ce lo chiedevamo».
Con buona pace di Bugliosi, è poco probabile che dietro i crimini ci fosse l’idea balzana di scatenare una lotta tra razze. E anche le varie ipotesi alternative sono insufficienti. Se dopo cinquanta anni quegli assassinî continuano a interessarci è perché intuiamo che il loro significato scavalca qualsiasi movente così come lo definisce la giurisprudenza. È consolante quando dietro un fatto che al principio è incomprensibile poi scopriamo che c’era un piano oppure che davvero non c’è niente da capire perché è stato un folle. Meglio ancora è venire a sapere che c’era un piano folle, perché allora siamo sicuri che noi non c’entriamo. Invece Manson è una cosa diversa, è la festa che finisce male. A tutti piacciono le feste, se ci invitano ci andiamo, anche se vorremmo saltare a piè pari il “mattino dopo” con la sua depressione, la nausea e le tempie che pulsano. Charles Manson è il destino delle cose belle che devono guastarsi. La certezza che tutte le feste finiscono male, ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.
Il terrorismo presentista fu l’ultimo prodotto della controcultura americana e delle religioni orientali che in quegli anni i californiani consumavano in massa, non sempre dilettantisticamente. A metà del secolo scorso le correnti che soffiavano dalle due coste del Pacifico si allacciarono e produssero un vortice potente e straordinario, che però ebbe vita brevissima. Manson ha significato per la summer of love la stessa cosa di Hitler per i cinque secoli della “protesta” tedesca inaugurata da Lutero: il riassunto, la configurazione istituzionale (family, partito), la parodia e il capovolgimento suicidario. Il discredito che la passione mortifera dell’uno e dell’altro ha gettato sui rispettivi patrimoni dello spirito, l’odio perpetuo che hanno sollevato contro di sé, sono stati elementi decisivi per la nascita di quell’“Impero del Bene” che oggi trionfa ovunque e contro il quale è diventato perfettamente inutile prendere la parola.