Nell’ormai consolidato panorama del cosiddetto “nuovo cinema rumeno” Corneliu Porumboiu gioca un ruolo di assoluto rilievo. Stiamo parlando di una straordinaria generazione di registi (diventata ormai una comoda categoria critica nell’ennesima vague da isolare e studiare) esplosa proprio al Festival di Cannes nei primi anni Duemila con i premi vinti da La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu (Miglior Film “Un Certain Regard” nel 2005), A Est di Bucarest dello stesso Porumboiu (“Caméra d’or” nel 2006) e 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni di Cristian Mungiu (Palma d’oro nel 2007). Tre premi che hanno fatto da apripista per i successivi vinti alla Berlinale da Il caso Kerenes di Călin Peter Netzer (Orso d’oro nel 2012), Aferim! di Radu Jude (Orso d’argento nel 2015) e Touch Me Not di Adina Pintilie (Orso d’oro nel 2018), senza contare altri autori di assoluto rilievo come Cristian Nemescu, Cătălin Mitulescu, Radu Muntean e soprattutto Adrian Sitaru. Tutti cineasti molto diversi come cifra stilistica e ambizioni produttive, eppure sottilmente uniti da una simile riflessione sull’eredità del Novecento come fantasma di memoria che preme nel presente rumeno (e per estensione europeo).

Istituzioni come la famiglia, la scuola, la religione, la polizia o i tribunali vengono (in)direttamente sondati come dispositivi disciplinari severi e spesso corrotti che il cinema riattraversa con coraggio aprendo l’immagine contemporanea – e i tribolati destini dei vari protagonisti – agli echi e alle ombre del passato totalitario dell’era Ceausescu.

Uno sforzo memoriale declinato al presente che Corneliu Porumboiu filtra nella sua peculiare focale decentrata, venata di ironia, sempre tesa ad aprire squarci kafkiani in situazioni comuni. E non fa certo eccezione questo magnifico La Gomera, forse il suo film più immediatamente riconducibile alle dinamiche di un genere popolare: il noir.

Il poliziotto corrotto Cristi è sedotto da una femme fatale di irresistibile bellezza e scaltrezza di nome Gilda (ogni riferimento al film di Charles Vidor non è evidentemente casuale); c’è poi un’altra donna forte, il commissario di polizia che pedina Cristi e i suoi rapporti con un’organizzazione criminale di trafficanti di droga spagnoli con base a La Gomera (nelle isole Canarie). Proprio come nel precedente Il tesoro (2015) c’è quindi un ricco bottino (chiaro mcguffin hitchcockiano) intorno al quale ruotano i destini di tutti questi personaggi con invenzioni narrative a ripetizione tra flashback improvvisi e fonti sonore antifrastiche (si inizia da Iggy Pop e si finisce con Strauss).

E allora: come sfuggire ai controlli incrociati della nostra epoca tra intercettazioni e sistemi di videosorveglianza sempre attivi? Con un incredibile e straniante metodo che scarta e mette in scacco ogni dispositivo: il tradizionale linguaggio fischiato del “silbo” usato dai pastori de La Gomera per comunicare a grandi distanze. Un vero e proprio alfabeto ridotto a cinque lettere che Gilda insegna a Cristi in esilaranti lezioni di fischi. Il tesoro da trovare ribalta nuovamente le dinamiche sociali e personali in una sublime levità iperrealista che astrae frammenti di storia ricordando A Est di Bucarest.

Ma se questa febbre dell’oro e quest’attrazione fatale per Gilda sono sempre trattenute nell’imperturbabile Cristi (confinate in una faccia di pietra degna di un personaggio di Kaurismaki), restano ancora una volta le associazioni linguistiche a rivelare il passato del personaggio e le sue motivazioni più intime: in un dialogo con la madre le suggerisce di giustificare quel denaro come rubato dal padre defunto, un burocrate di partito nel vecchio regime… “tanto a quell’epoca chi non lo faceva?”.

Messa in fuori campo la Storia, pertanto, è il cinema a diventare un fertile campo di referenze. Come nell’incontro decisivo con la poliziotta in Cinemateca, dove ogni discorso sull’intricata situazione di Cristi si blocca sull’estatica visione del grande schermo mentre proietta Sentieri selvaggi di Ford. Un momento che cattura totalmente la loro attenzione proprio quando John Wayne/Ethan Edward è accerchiato dagli indiani Comanchi che comunicano a distanza (anche loro!) con un linguaggio di fischi. Oppure nel divertito richiamo alla doccia di Psycho nel Motel Opera (nuovo Bates?) che “educa” i suoi clienti con le opere di Mozart e Bellini tenute a volume altissimo prima di divenire il teatro di una violentissima sequenza rivelatrice. Una tensione culminata poi nella resa dei conti con i trafficanti spagnoli risolta in un set cinematografico abbandonato e diventato un luogo immaginario da riattraversare e riempire.

Eccoci allora al punto teorico del film: ri-abitare l’immagine cinematografica e i suoi codici piegandola a nuove significazioni e a nuove soggettivitàLa Gomera diventa così un travolgente puzzle di segni e suggestioni riconoscibili, rifunzionalizzate nel mo(n)do alieno di Porumbiu. La prova definitiva di un talento cristallino: nel suo film più evidentemente mainstream (prima volta in concorso a Cannes e prima volta con un genere abbastanza codificato), il regista rumeno non perde un grammo della sua anarchica irriverenza e della sua rigenerante potenza immaginifica, fischiando liberamente in ogni inquadratura per comunicare ancora. Insomma: lo sguardo decentrato di Porumboui sul nostro presente è un prezioso tesoro ancora tutto da scoprire.

Share