La felicità ha il suo contrario nell’infelicità,
la gioia non ha contrario.
Rainer Maria Rilke
Buio. Luce. “Questo spettacolo ri-nasce dalla morte di Bobò”. Buio. Luce. Nelson annaffia un giardino vuoto. Esce di scena. Buio. Luce. Nelson annaffia un giardino dove è nato un fiore. Buio. Luce. Nelson annaffia un giardino con tre fiori. Buio. Luce. Il giardino è pieno di fiori. Ritorna in scena Pippo Delbono, camicia dentro e fuori i pantaloni, un foglio in mano, una risata per il pubblico: “Volevo dire che ho smesso: questo spettacolo non è sulla morte di mia madre, non ne farò più. Scusami mamma”. Questa Gioia, andata in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 10 marzo e ora in tournée, è per/su Bobò, il piccolo uomo scomparso un mese fa a settantaquattro anni, quarantacinque dei quali passati in manicomio, il grande uomo che, sordomuto e analfabeta, “portava con sé il senso vero, profondo del teatro”, l’uomo a cui Pippo Delbono ha salvato la vita, e viceversa.
La domanda che anche quest’ultimo spettacolo di Delbono pone, è: che cosa c’è dopo? Cosa c’è dopo la morte di Bobò? Cosa c’è dopo il dolore? Dopo la sofferenza, dopo la paura, cosa c’è?
La risposta non è la gioia, ma: l’attesa. C’è un tempo per morire (anche nella vita), e uno per rinascere. C’è un tempo per fiorire, ma a ciascun fiore serve il proprio tempo per sbocciare. O anche: bisogna aspettare che passi l’inverno, perché arrivi la primavera. Nel senso che non si è mai visto che un inverno non passi, e che non torni la primavera: “Che fretta c’era, maledetta primavera”. La canta tutta Gianluca la canzone di Loretta Goggi, stretto nel suo vestito blu, solo sul proscenio. La cantiamo tutti, la canta Delbono dalla sua consolle di regia in fondo alla platea, mentre entra ed esce dal suo spettacolo, artista-spettatore di un’opera sempre in atto di creazione e mai compiuta. Uno spettacolo retto da una conturbante anarchia scenica che si nutre di contrasti in grado di dare il giusto ritmo ad ogni suo buio, ogni suo silenzio – “ora stiamo un po’ in silenzio, come il silenzio di Bobò” – ogni sua attesa:
“Gianluca, il dolore passerà. Gianluca, la sofferenza passerà. Gianluca, la paura passerà. E poi…arriverà la gioia. E poi passerà”. Mentre aspetta che il dolore passi e arrivi la gioia, Gianluca è sul proscenio, la testa poggiata su un cumulo di panni che sono andati a formare una montagna dove prima era un mare, di panni sporchi, di vestiti vuoti, di tutte le anime che abitano quel “mare nostrum che non è nei cieli” della poesia di Erri De Luca che legge Delbono.
C’è allora, anche in questo spettacolo, sempre un dolore all’origine del lavoro creativo dell’artista ligure: in Tempo degli assassini era il dolore per la morte dell’amico Vittorio, in Guerra per l’orrore della guerra, in Il silenzio per i morti di Gibellina, in Menzogna per la morte del padre evocata tramite quella degli operai della ThyssenKrupp, in Orchidee per l’andare verso la morte della madre. In questa Gioia il dolore per il faro che pendola spento sulle anime spente dei migranti, il dolore per la perdita di Ilaria (la ballerina di Tango che danza la morte del suo amato), o per la pazzia di Pepe (lo sciamano che guarisce le persone per guarire dalla sua follia), è sempre, per Delbono, un dolore autobiografico; solo così si può raccontare il dolore non come consolatoria esibizione ma come esperienza vissuta: la perdita di Bobò, l’uomo che ha salvato l’artista dalla malattia mentale (quella venuta dopo la malattia fisica del virus dell’HIV). Una gabbia scende allora ad imprigionare Delbono mentre racconta la (sua) storia di un suo amico che aveva tutto eppure ha perso tutto, quando ha perso la gioia di vivere.
Come ogni spettacolo anche Gioia diventa allora un viaggio, un viaggio nel dolore, un viaggio dentro la morte per esplorare la possibilità della gioia, come recita il titolo del libro di Gianni Manzella (vincitore del Premio Speciale UBU 2018) che ripercorre le tappe dell’esperienza artistica e di vita di Pippo Delbono. La gioia è possibile solo a partire dal dolore. E il dolore più grande, per un essere umano, è quello della perdita. La perdita di un altro essere umano a lui caro. È questo ciò che più ci spaventa, più della malattia del nostro stesso corpo, più delle calamità naturali, più della guerra, più del sole che potrebbe non sorgere domani ci spaventa che domani chi amiamo possa lasciarci. Il dolore, come l’amore direbbe Lacan, è sempre dolore del nome. Per questo non esiste, non nel teatro di Delbono, un dolore in astratto: il dolore ha sempre il nome e il volto (o la voce) della persona che amiamo. È l’immagine della panchina vuota, quella, famosa, nella storia del teatro vivente, su cui Delbono e Bobò “parlavano” della vita, e su cui ora l’artista non siede da solo. La panchina rimane vuota, adornata di fiori, mentre il teatro è straziato dalla voce di Bobò, da quei suoi versi ancestrali che sembrano chiamare alla vita: “Bobò è qui, da qualche parte”.
Potrebbe, per la materia trattata, ma non lo è mai, patetico, né retorico, neanche questo spettacolo. Piuttosto Delbono, artista bricoleur, riesce ad essere sempre incline al gioco, con i suoi tempi comici, con il suo uso attento del grottesco (le maschere di carnevale), con lo scivolare serio nella parodia (Gianluca che mima Loretta Goggi). Anche in questo spettacolo ricorre quell’ibrido uso drammaturgico di materiali diversi tra loro indifferenti – dal tango alla clownerie, dal materiale audio alle performance musicali –, tutti materiali che «hanno uguale peso specifico, quel che conta è solo come funzionano sulla scena» (Manzella 2017, p. 63). È questo montaggio delle attrazioni, quest’azione di mescolamento ad avere «l’inevitabile effetto di riattivare una memoria dello spettatore. Di metterlo cioè in contatto con zone emozionali anche molto personali creando un cortocircuito dell’immagine con una memoria personale» (ivi, p. 79).
Lo spettacolo diventa allora, anche per lo spettatore, un viaggio nell’anima, nei luoghi delle proprie intime sofferenze e in quella terra straniera chiamata il dolore degli altri. Un aprirsi al dolore degli altri che permette di guardare con occhi diversi a quel nostro dolore così grande e così piccolo di fronte al dolore del mondo, perché «solo la consapevolezza di un dolore collettivo è in grado di dare peso specifico a quello individuale» (ivi, p. 36). È un percorso esistenziale che dura il tempo dello spettacolo ma che, grazie al movimento entropico prodotto, fa si che ciò che era all’inizio non può mai ritrovarsi alla fine, il climax scivola inevitabilmente verso la sua catarsi: la temperatura scenica aumenta con il suo volume, dalle basse musiche iniziali che raccontavano sommessamente il vissuto doloroso dei vari personaggi si arriva così alle urla finali. Solo ora si può urlare, gioiosamente, il dolore vissuto. “Luce luce, fammi luce” urla Delbono alla regia ma il palco è sempre più buio, perché solo nel buio la vita si fa luminosa.
È uno spettacolo nero questa Gioia, un modo di accogliere la morte, per guarire la vita. Riparare il lutto per scoprire che quell’altro mondo che c’è, è in questo mondo. E noi qui ad abitarlo con le radici nel fango ma i petali rivolti al sole sulla superficie dello stagno, come un fiore di loto. Come i fiori del finale – Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori cantava De Andrè in un altro spettacolo di Pippo Delbono. Su un cumulo di foglie secche nascono allora i fiori freschi per Bobò. Sulla sua panchina vuota si siede ora Gianluca (il ragazzo down suo fedele compagno), in mano una torta di compleanno, “perché Bobò non aveva il senso del tempo, dei mesi, degli anni, e allora ogni tanto festeggiavamo il suo compleanno”.
Cos’è allora la gioia? Questa la domanda dello spettacolo.
Mentre la felicità è uno stato estatico di euforia, di solito riservato a pochi attimi di vita – i momenti in cui ci siamo sentiti felici – e la serenità una condizione, più modesta ma confortante per la sua promessa di stabilità, la gioia è un moto dell’anima. Si ha o si perde la gioia nel cuore. Alla gioia non si può ambire come alla felicità, non ci si può lavorare come per costruire la propria serenità. La gioia è una possibilità. “È un patto” dice Delbono, è qualcosa in cui credere. Non ci serve la successiva, ce ne basta una: “Tienila, tienila” urla il regista. Trattenere la gioia. Perché se la felicità è esplosiva, come qualcosa (di verticale) che cade, e la serenità è piatta (e orizzontale) come un mare calmo, la gioia invece è tonda. Come l’urlo di un bambino che nasce alla vita. Pensare l’urlo non come un corridoio nero e lungo ma come un tondo pieno che va ad occupare il tondo vuoto del silenzio, è lo scatto immaginativo che lo spettacolo di Delbono, non solo questo, richiede.
Urlare gioiosamente il nostro dolore. Perché se la felicità è un percorso individuale, e la serenità può essere condivisa, solo la gioia è collettiva. Proprio perché presuppone, sempre, un’apertura alla fragilità dell’altro. Non ha a che fare con la ricerca spasmodica del piacere personale e del godimento diffuso la gioia, ma con il gaudium latino: uno stato spirituale, di beatitudine, una fede nella gioia. Non esiste la gioia, non è da nessuna parte. Eppure, è in qualunque cosa crediamo, in un senso pieno, come Delbono al suo teatro, come i credenti in Dio, come una madre alla vita che porta in grembo, come Bobò al suo compleanno…
Riferimenti bibliografici
G. Manzella, La possibilità della gioia. Pippo Delbono, Edizioni Clichy, Firenze 2017.
P. Delbono, Racconti di giugno, Garzanti, Milano 2008.
* In anteprima e in copertina una foto di Luca Del Pia.