
Un luogo dissestato. Case semidistrutte in mezzo ad un campo; le strade sono di sabbia. Una ragazzina, accovacciata, con le spalle appoggiate ad un muro, afferma: “Non sono in grado di raccontare delle storie”. Eppure subito dopo si alza, disegna con un ramo un cerchio sulla sabbia e continua: “Qui c’era un grande albero, qui venivamo con mio padre e i miei fratelli”. La storia è iniziata. La storia di Amal e della sua famiglia, profughi a Gaza, può essere allora raccontata; anche ciò che non può essere visibile – il passato, coloro che non ci sono più, l’immaginazione della bambina – diventa immagine grazie ad una continua alternanza tra la camera vicina ai personaggi di Savona e l’uso di una animazione secca e in bianco e nero. Sono le immagini iniziali de La strada dei Samouni (2018) di Stefano Savona.
Immagini emblematiche, immagini ibride; forme diverse che si integrano insieme, al fine di recuperare la possibilità di raccontare o, ancora meglio, la necessità che il racconto possa essere evocato: è proprio in una delle sequenze animate che il padre di Amal dice a suo figlio: “Poter raccontare è ciò che distingue gli uomini dagli animali”. Ed ecco che la memoria corre a The Dark Side of the Sun (2011) di Carlo Shalom Hintermann e Lorenzo Ceccotti, dove il regista e il fumettista trasformano in fiaba animata i sogni e le storie dei bambini ricoverati in un centro medico negli Stati Uniti, bambini affetti da una malattia mortale, che impedisce loro di stare alla luce del sole. In entrambi i film il racconto, la possibilità di raccontare, di mantenere viva la creazione di storie o la loro memoria, è al centro dello sguardo. Ma quello a cui assistiamo è un modo particolare di pensare, o meglio di mettere in forma il racconto; di pensarlo cioè non come struttura narrativa, ma come memoria vitale, elemento del film (e della vita).
Racconto e cinema. Si dirà: in ogni forma di cinema c’è in gioco (sia pure in una modalità azzerata o rovesciata) una narrazione. Ma narrazione e racconto non sono necessariamente sinonimi: nelle due parole, nel loro rapporto, vibra una dialettica particolare. La narrazione indica l’azione e il modo del raccontare, dunque si riferisce alla strutturazione degli eventi, alla sua organizzazione ritmica e modulare. Il racconto invece è l’esposizione di eventi, a volte immediata, a volte spontanea, improvvisata, a volte breve e fulminante. Il racconto è la storia, è ciò che rimane nell’immaginario, sono i suoi personaggi, le loro azioni che entrano nello sguardo, nella cultura. La narrazione è la dinamica che organizza tali elementi in una struttura. Il racconto è la materia, l’origine di ogni narrazione, ciò che ne permette lo sviluppo. Come tradurre in senso cinematografico tale distinzione? Come pensare il racconto come origine dal punto di vista del cinema?
Prendiamo (cinematograficamente) la parola “racconto” in un senso particolare, come cioè la modalità con cui alcuni autori integrano, accostano o rileggono le immagini documentarie sotto la forma del racconto, cioè associandole a forme antiche di narrazione, facendo circolare queste forme all’interno delle immagini, giocando liberamente. Rileggere sotto la forma del racconto significa allora pensare le forme narrative (dal mito al romanzo, passando per i racconti della tradizione popolare), come “strutture” del cinema, serbatoi di immagini e modalità di narrazione, di maschere e personaggi, evocazioni e luoghi della memoria.
Ed è seguendo tale direttrice che risulta evidente una linea peculiare del cinema del reale. Sempre più potente è infatti una tendenza che in modo diverso fa i conti con una narrazione che è al tempo stesso esigenza e memoria, presenza e traccia, in ultima istanza, materia delle immagini. Nel film di Giovanni Cioni, Gli intrepidi (2012) – parte di un trittico di opere prodotte all’interno di un progetto ideato da Giovanni Maderna e legato proprio all’idea di ripensare i racconti di Salgari dal punto di vista del cinema – il racconto dello scrittore veronese da cui prende il titolo diventa l’occasione per un percorso visionario, aperto, che si intreccia con la vita di due ragazzi dell’entroterra toscano, con i loro sogni, desideri, paure. Non si tratta di una soggettiva di uno dei personaggi, e neanche di un inserto autoriale. Le immagini circolano tra altre immagini, costruiscono un mondo puramente filmico, in grado di riorientare lo sguardo documentario e il suo rapporto con il racconto.
Ecco che allora, in una prima declinazione del rapporto tra cinema e racconto, la forma del racconto popolare (Salgari) si manifesta come elemento interno allo sguardo cinematografico. La scrittura salgariana, o meglio, il suo universo di avventure e personaggi diventa la materia stessa del film, il suo immaginario di partenza. Se in Cioni (ma un discorso analogo può essere svolto anche per gli altri due film della serie “Cinema Corsaro”) Salgari diventa il nome proprio di un immaginario popolare che continua ad essere presente, nella produzione recente di due registi come Massimo D’Anolfi e Martina Parenti – Materia oscura (2014), L’infinita fabbrica del Duomo (2015) e Spira mirabilis (2016) – i mondi presenti, spazi, luoghi antichi e mobilissimi come ad esempio il Duomo di Milano vengono non descritti, ma interrogati nella loro capacità di raccontare la storia, la loro storia e quella di coloro che li hanno abitati.
Prendiamo ad esempio l’ultimo e il più ambizioso tra i film realizzati dalla coppia milanese, Spira mirabilis, la spirale meravigliosa: così il matematico Jakob Bernoulli definì la spirale logaritmica studiata per la prima volta da Cartesio nel 1638. Spirale meravigliosa, perché la sua regolarità le permette di crescere e trasformarsi mantenendo una costanza nei suoi rapporti interni, in tutti i punti della spirale logaritmica, l’angolo formato dal raggio vettore e dalla retta tangente è costante. Il titolo è anche una porta d’ingresso al film stesso, composto da quattro episodi che si sviluppano alternativamente in quattro luoghi – Milano (dove vengono riprese alcune sequenze del film precedente); Berna, dove due inventori creano da decenni particolari strumenti musicali nel loro laboratorio di Berna; Shirahama, in Giappone, dove uno scienziato si dedica a studiare la Turritopsis, “medusa immortale”, dal ciclo vitale potenzialmente infinito, capace di mutamento e rigenerazione; Wounded Knee, dove un gruppo di nativi-americani Oglala Sioux si occupa di preservare le antiche tradizioni –, ognuno dei quali legato ad un elemento, terra, acqua, aria e fuoco.
Le immagini che aprono il film sono quelle di una notte scura, da cui emerge una voce, una donna che racconta il mito cosmogonico di Inyan, il primo degli spiriti immortali per i Sioux, creatore del cosmo e della terra. Un racconto – ancora una volta – apre dunque il film, e subito esso si lega ad un altro racconto: in un cinema vuoto, un’attrice, Marina Vlady, recita L’immortale, il racconto di Jorge Luis Borges, e la sua lettura si alterna lungo tutta la visione. Gli episodi allora si legano insieme in un percorso che unisce temporalità diverse: il tempo della vita e l’infinito rigenerarsi del ricordo e delle opere dell’uomo (l’origine del cosmo e la forma di vita immortale, la memoria del passato che si perpetua attraverso un continuo lavoro di restauro e reinvenzione).
Il racconto di Borges come guida, quello di Inyan come origine, la spirale logaritmica come modello. I due racconti – il mito di Inyan e L’immortale di Borges – costituiscono dunque, all’interno della struttura a spirale del film, fatta di continui “salti” da un episodio all’altro, la particolare modalità di inserzione della forma racconto nel film; una inserzione che collega immediatamente passato e presente, alla ricerca di una temporalità particolare.
Le forme del racconto e della sua presenza nel cinema del reale sono dunque varie, aprono a diversi percorsi cinematografici, ma hanno spesso a che fare con la memoria che tali racconti attivano e che di fatto, in un nuovo “montaggio” che li ripresenta, li modifica ulteriormente, come nel caso del cinema di Michelangelo Frammartino, che in film come Le quattro volte (2010) o Alberi (2013), trasfigura il reale ritrovandone le origine mitiche, la forza del racconto ancestrale; o nel caso del teatro di maschere della tradizione italiana, ripreso dal cinema di Pietro Marcello.
In un film come Bella e perduta (2015), infatti, la rievocazione della figura di Pulcinella, la presenza di un animale parlante come il bufalo Sarchiapone introducono non tanto una modalità straniante di fare cinema documentario, ma al contrario la possibilità di creare, ancora una volta, un corto circuito tra passato e presente, in cui le figure della narrazione antica (come Pulcinella) diventano personaggi osservatori di una realtà sfuggente e lacerata. La figura di Pulcinella attraversa le situazioni “reali” – manifestazioni, scontri tra popolazione e forze dell’ordine, la reggia dove si svolge il film – come fantasma, o meglio come colui che si situa, usando le parole che Agamben utilizza in un suo recente saggio sulla figura di Pulcinella, “al di qua o al di là dell’azione” (Agamben 2015). Quella della maschera diventa allora una figura potente. Essa indica una sorta di tensione continua tra dissimulazione e simulazione, proliferazione di immagini che, di fatto, mostrano l’indeterminatezza del reale ma che, proprio per questo, non cessano di esser prodotte, di creare cinema.
Anche qui il collegamento, il filo continuo che lega passato e presente è evidente: la figura della maschera attraversa prepotentemente il cinema e la cultura italiani, spesso diversificandosi, articolandosi. Ma ancora una volta non si tratta di mera riproduzione di forme. La maschera nel cinema del reale diventa un operatore di sguardo, una forma che riorganizza il mondo visibile, mostrandolo come altro da ciò che appare. Non è un caso che due delle maschere più importanti della tradizione italiana (pur diverse per origine) siano Pinocchio e Pulcinella. Due maschere opposte, figura della metamorfosi la prima, dell’eterna ripetizione la seconda. E non è un caso che siano al centro di un dittico importante nel cinema del reale italiano, appunto Bella e perduta e Pinocchio a rovescio di Frammartino, che ne reinterpreta in modo originale le funzioni (anche se si tratta di un dittico incompiuto, visto che il film di Frammartino non sarà poi realizzato per vicissitudini produttive).
In tutti questi esempi, la forma del racconto invade letteralmente con grande forza lo sguardo documentario, non per negarlo né per dargli una struttura che proviene da “fuori”. Ma per entrare appunto nel gioco (serio) della ricerca delle immagini. Si tratta di un cinema che mette in gioco con grande originalità la forma del racconto attraverso il ricorso a elementi che appartengono alla tradizione, ad una tradizione profondamente italiana: la letteratura popolare, i luoghi del sacro, le figure della commedia dell’Arte. Queste immagini lavorano contemporaneamente su un doppio significato della parola tradizione: quello di una tradizione narrativa (riletta attraverso le forme del cinema) e quello della tradizione cinematografica.
Raccontare è un atto di fondazione e di recupero, un gesto che collega con l’origine, e che per un filosofo come Jean-Luc Nancy si lega profondamente all’idea di Comunità. Recuperare la forza del racconto – della fiaba o delle maschere, del racconto d’avventura o di una storia d’amore – significa allora mostrare la necessità, se non l’urgenza, di liberare la potenza di connessione tra noi e il mondo visibile, di poter filmare le tracce di un passato che si fa presente.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Pulcinella ovvero il divertimento per li regazzi, Nottetempo, Roma 2015.
J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995.