Gli schermi sono neri, di nuovo. La quarta stagione di Black Mirror è uscita giusto in tempo per dire addio al vecchio anno e per dare il benvenuto al nuovo, con la promessa di una intensa overdose distopica. Questa quarta stagione propone ancora una volta sei episodi, scritti tutti dall’ideatore Charlie Brooker (tranne il primo, frutto della collaborazione con William Bridges), mentre la direzione è stata affidata sempre a registi diversi. Le puntate hanno durata differente, espediente efficace ereditato dalla stagione precedente e che ha garantito un maggiore impatto diegetico, passando dai citazionisti 76 minuti di USS Callister agli autoriali 41 minuti di Metalhead. Il tema generale rimane, ovviamente, sempre lo stesso: quali sono gli effetti delle tecnologie sulle nostre vite? Le risposte fornite dalla stagione la dividono tematicamente in due: delle sei puntate, tre concernono l’argomento del mind upload, ovvero della possibilità di trasferire la coscienza umana altrove (altri corpi e/o altri supporti); mentre altre tre possono essere collocate – con qualche riduzione interpretativa – sotto la categoria della visione protesica, cioè la possibilità di moltiplicare in vario modo le occasioni del visibile. Si tratta di una bipartizione arbitraria, non esplicitamente riferita dagli autori, che consente una minima categorizzazione tematica.
USS Callister (4×01) apre la stagione e la tematica: un geniale programmatore di software di realtà virtuale totalmente immersiva, Robert Daly, frustrato nella vita reale da un socio arrogante che non ne apprezza le qualità, incanala il suo odio verso copie digitali di colleghi, riprodotte in un ambiente digitale tramite scansione del DNA. In questa cosmogonia digitale da lui creata, il Capitano Daly è signore assoluto, depriva i suoi avatar degli organi genitali e li obbliga a una esistenza infinita senza possibilità di fuga, nemmeno dalla vita stessa.
Hang the DJ (4×04) è forse la puntata più riuscita sull’argomento, perché apparentemente confeziona una storia d’amore nell’era dei social, ma nella sostanza è un manifesto sull’implacabilità funzionale del “Sistema”, inteso come ontologia onnicomprensiva che veglia sulle nostre vite talmente bene da non essere percepito: locus classicissimus della distopia. All’interno di una narrazione che rievoca più o meno esplicitamente Matrix delle sorelle Wachowsky e The Truman Show di Peter Weir, la fuga dal sistema di Frank e Amy – la crepa provocata dalla ribellione di persone autonome e capaci di scorgere l’illusione che le governa – è perfettamente funzionale al sistema stesso, che la utilizza per i suoi scopi: “Do have faith in the system!”.
Black Museum (4×06) è la puntata che esplora più a fondo le derive del mind upload. Il Black Museum è un quello che potremmo considerare un museo degli orrori tecnologici, un posto in cui un ex dipendente della clinica San Junipero, Rolo Haynes, ha raccolto una serie di strumenti la cui presentazione ci fa accedere a tre storie diverse. Una di esse mette in scena la possibilità, già attuale, della brain-to-brain interface, cioè della possibilità di mettere in comunicazione due cervelli tramite un dispositivo.
Arkangel (4×02) apre la triade della tematica della visione protesica, con Jodie Foster in regia. Una madre, convinta di fare il bene della figlia Sara, decide di monitorarla facendole impiantare un chip che le permette non solo di seguirne ogni spostamento, ma di assumerne la prospettiva visiva. Il sistema può inoltre offuscare la vista della giovane Sara di fronte a scene ritenute stressanti. Come in altri episodi delle passate stagioni, avvertiamo il dramma dell’eccessiva consapevolezza derivante dal vedere di più, soprattutto se paragonata all’abisso ansiogeno della non conoscenza.
Crocodile (4×03) è l’episodio scientificamente più plausibile. Una giovane architetta, Mia, è disposta a tutto per tenere in piedi la sua vita, anche a versare le proverbiali lacrime di coccodrillo dopo ogni azione efferata. Peccato che sulle sue tracce vi sia la recall team in grado di accedere alla memoria visiva di un potenziale testimone, semplicemente innescando la rievocazione del ricordo vissuto. La letteratura sul mental imagery ha stabilito che le aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione degli input visivi sono le stesse deputate alla loro rievocazione e, soprattutto, che sono retinotopicamente organizzate, ovvero la loro struttura di attivazione neuronale dipende dalla struttura dell’oggetto percepito: già oggi possiamo lanciare una ricerca online di un’immagine semplicemente pensandola.
Metalhead (4×05) è una vera e propria perla. 41 minuti girati in bianco e nero che enfatizzano l’aspetto autoriale e che raccontano l’inseguimento serrato di una donna, Bella, braccata da un implacabile cane robotico dalla testa metallica. Il mondo visto dalla prospettiva del robot è una rappresentazione esemplare della cieca, efficiente ottusità che guida il suo comportamento, che si contrappone drammaticamente all’apparente futilità dell’azione umana quando è guidata, come ci mostra l’ultima scena, da ragioni che trascendono la mera sopravvivenza.
Una grossa parte della potenza narrativa delle passate stagioni di Black Mirror è consistita nella capacità di dare corpo, mettendo in scena l’alba di un futuro prossimo, alle paure di una società non ancora consapevole. La varietà dei soggetti e la ricchezza di spunti che ogni singola puntata era in grado di offrire avevano messo in immagine, trasformandoli quindi in realtà visibile, intuizioni imprecise e diffuse di angoscia sul futuro. Marshall McLuhan credeva che il compito dell’arte fosse proprio quello di preparare le persone comuni al nuovo ambiente sensoriale, anticipandone le caratteristiche sensorio-cognitive. Mentre le prime tre stagioni ci avevano proiettato all’interno di un controambiente in grado di farci assaggiare il futuro e di sentirne l’incombente presenza, quest’ultima non è riuscita a fare lo stesso. Alcune storie conservano intatto il carattere angosciante della serie, ma la stagione nel suo complesso non ha la forza di sradicare certezze, di farci mettere in discussione il nostro rapporto con la tecnologia, o di farci esperire un mondo che, seppur tremendo, sentiamo come possibile, come nostro.
Se questo sia dovuto a una sorta di assuefazione tematica e contenutistica – mind upload e visione protesica sono temi già trattati nelle stagioni precedenti – o a dei limiti intrinseci alle puntate, è difficile a dirsi. A ciò si aggiunge il fatto che questa quarta stagione non solo soffre di scarsa eterogeneità di visione distopica, ma dimostra superficiale attenzione verso la ricerca scientifica contemporanea e verso le filosofie che concernono la relazione uomo-tecnologia. Per esempio, alla domanda – è possibile una mente senza un corpo? – le scienze cognitive risponderebbero negativamente: non è più il tempo dei cervelli in una vasca o dei teatri cartesiani nei quali omuncoli tuttofare tirano su e giù le leve del comportamento. Insomma, la serie stavolta sembra aver mancato quell’incontro – magnificamente orchestrato nelle prime due stagioni, ma genuinamente riscontrabile anche nella terza – tra scienza e fantascienza. Ed è un peccato, perché l’esperienza mediata è uno dei problemi più urgenti della contemporaneità, un’eredità novecentesca di cui Black Mirror ha sempre mostrato di conoscere il profilo filosofico e genuinamente mediologico. Affinché Black Mirror continui a forgiare l’immaginario di ciò che saremo tale ricongiunzione è necessaria: gli specchi, si sa, anche se deformanti, non mentono mai.
Riferimenti bibliografici
M. Cappuccio, Mind-upload. The ultimate challenge to the embodied mind theory. Phenomenology and the Cognitive Sciences, 16, 2017, 425–448.
L. De Biase, T. Pievani, Come saremo, Torino, Codice 2016.
M. McLuhan, Counterblast, Transmediale, Berlin 2011.
F. Parisi, The electric man. Material engagement theory and the case of electromagnetism, in “Reti, Saperi, Linguaggi”, 12, 2017, 267-28.