Dopo un ventennio come protagonista del documentario “di poesia” nella Polonia degli anni settanta, e due prove a cavallo tra docu-drama e narrazione come La cicatrice (1975) e l’apologo metacinematografico Il cineamatore (1979), Krszystof Kieślowski approda al cinema “di finzione”. Un cambio di registro che affronta come un rito di passaggio dalla microfisica dell’“essere sociale” alla metafisica del sentire, ingaggiando un corpo a corpo con l’intreccio di caso e necessità che è la vita, per esprimere quello che definisce “il lato oscuro” dell’umano, la sua impalpabile interiorità. Negli anni ottanta realizza opere come Il caso (1981) e Senza fine (1985), dove indaga la relazione tra vita, morte, possibilità e realtà dei personaggi, per approdare al monumentale Decalogo (1988), opera che scandaglia il rapporto tra etica e vita con dieci film dedicati al senso contraddittorio dei “comandamenti” della religione cattolica negli eventi contingenti dell’esistenza individuale. Dopo la morte di Andrej Tarkovskij (1986), Kieślowski si ritrova così dunque a essere uno dei pochissimi cineasti rimasti (con Angelopoulos, Straub-Huillet, De Oliveira o Béla Tarr) a perseguire un’idea di “tempo scolpito” novecentesca, indissolubile dalle proprie radici culturali: una narrazione del mondo, avrebbe detto Pasolini, “scandalosamente legata alla tradizione”, radicata in un’identità culturale irrinunciabile.
Prova ne sia che nel suo “periodo francese” che incomincia con La doppia vita di Veronica (1991), la forza dirompente dei suoi film è dovuta proprio a questo elemento disomogeneo che, come in un’emulsione, dopo essersi mescolato all’incedere liquido della narrazione, riemerge verso l’alto dell’involucro (filmico) come una diversa densità dello sguardo, del sentire, del dare corpo al mondo. Un elemento di scavo emozionale tipico della cultura polacca, che rende l’idea dell’esistenza in Kieślowski più simile alla concezione del connazionale Jerzy Grotowski del teatro, che non a quella del cinema. Fondata cioè sul mistero dell’umano, sulla sua apoteosi immaginativa, sul conflitto sempre presente tra la realtà esteriore e il caos inarginabile della dimensione interiore, che come una trance fantasmagorica si manifesta nei corpi, negli sguardi, e, ancor più spesso, nei silenzi. Una “mistica della visione”, dove il soggetto si trasfonde e si identifica con l’oggetto del proprio sentire: nel predominio demiurgico di un’individualità che può essere trascritta solo in termini metaforici, simbolici e allusivi, e dove ogni elemento rimanda al tutto in una serie indefinita di intrecci: un rizoma di immagini legate sotterraneamente, al di là della loro superficie visibile.
Due piccoli fallimenti fanno da spia di questo spirito, che anima l’impalpabile delicatezza de La doppia vita di Veronica (1991): un film, come ebbe a dire il regista, “fatto di sole emozioni”, frutto di un accordo con il giovane produttore Leonardo De La Fuente, colui che con la Canon aveva “scoperto” e distribuito tutto il Kieślowski antecedente al Decalogo in Francia in un solo anno, dopo la visione-shock di Breve film sull’uccidere al Festival di Cannes del 1988. Il primo è che il progetto partiva da un pitch diverso, che aveva rappresentato negli anni una tormentosa idea fissa che il regista non è mai riuscito a realizzare: la storia di un uomo che decide deliberatamente di tornare nel mondo dei vivi dopo essere morto. Il secondo è che Kieślowski aveva intenzione di realizzare centinaia di versioni leggermente diverse del film, distribuendo ogni copia di pellicola come un pezzo unico e irripetibile, una “versione” apocrifa di un’opera di cui non esiste originale. Idee “più grandi della vita”, come avrebbe detto Orson Welles, proiettate verso un superamento della benjaminiana “riproducibilità tecnica” (cosa che del resto Welles immaginava per il gioco di scatole cinesi del suo capolavoro incompiuto, The Other Side of the Wind), come se proprio l’irripetibilità della singola esistenza, la sua precaria labilità, la rendesse preferibile alla definitività della morte.
La doppia vita di Veronica diventa così un canto d’amore per la vita nel mistero profondo della solitudine dell’anima, dove l’esperienza del “ritorno dalla morte” alla base del progetto originario si interseca a un ribaltamento dell’archetipo freudiano del Doppelgänger, l’antimateria del sé, che da E.T.A. Hoffmann fino al conterraneo Gombrowicz ha alimentato un’idea dicotomica del doppio, come sdoppiamento perturbante di una persona in due aspetti opposti e complementari. Kieślowski, che ha definito Veronica “un film senza azione”, come il Welles di The Other Side of the Wind mette in scena una simultaneità che si snoda in una rete di corrispondenze formali preziose, dove ogni immagine, ogni riflesso di luce o sfocatura assume un suo preciso significato in relazione al sentimento dell’altro, di una nostra vita al di fuori di noi che ci strappa alla solitudine monadica dell’essere. Le due “gocce d’acqua” nate nello stesso giorno, Weronika e Véronique, prendono atto dell’essere due manifestazioni di un solo universo interiore, che tocca il suo confine in continua espansione nel momento in cui ha luogo il corto circuito della presa di coscienza della reciprocità, di un ritorno al mare comune dell’essere al di là della caducità dell’esistere.
Weronika, il cui cuore cede nel momento del compimento di sé, mentre il suo canto di sublime solista viene riconosciuto dal mondo, con la soggettiva del suo volo d’uccello sul pubblico del teatro, travalica la morte: una scena che riecheggia il fiore che si illumina al passaggio dell’anima che si stacca dal corpo del racconto di Pirandello Di sera, un geranio: “S’è liberato nel sonno, non sa come; forse come quando s’affonda nell’acqua, che s’ha la sensazione che poi il corpo riverrà su da sé, e su invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giù. […] e in che cosa ora sia veramente, non sa […] Alienato dai sensi, ne serba più che gli avvertimenti il ricordo, com’erano; non ancora lontani ma già staccati […]”. L’“ombra galleggiante del corpo rimasto giù” di Weronika a poco a poco pervade la vita di Véronique, la irrora segretamente, disseminandola di piccoli segni da decifrare, come a volerla salvare da qualcosa: la cardiopatia, il cedimento del cuore di fronte alla coscienza dell’altro. Quello di Véronique diventa così il ritorno circolare a una se stessa mai vissuta, vita che si incarica di sconfiggere definitivamente la solitudine obbligata della morte: un afflato che trova il suo correlativo oggettivo nell’immagine del ricongiungimento, in cui il laccio spezzato della cartellina di musica di Weronika coincide perfettamente con la linea dell’elettrocardiogramma di Véronique.
Anche nel progetto dei Tre colori, prodotto dalla MK2 di Marin Karmitz, ritroviamo universi paralleli e molteplicità, fino allo sconfinamento tra i diversi film dei personaggi: un altro “racconto simultaneo” che unifica il percorso dei protagonisti, dove i principi della Rivoluzione Francese sono calati da Kieślowski, come i comandamenti nel Decalogo, nell’inestricabile, contraddittorio e paradossale snodarsi dell’esistenza. Tre film separati e in qualche modo congiunti, in cui i diritti-doveri inalienabili dell’individuo sono “contaminati” dal cinismo indotto della sopravvivenza, dove sembrano operare solo per negazione, rimarcando la distanza tra gli esseri umani. Così la libertà si trasforma in liberazione, l’uguaglianza in riscatto, la fratellanza nel conforto (postumo) della pietà. Gli assiomi libertari dell’Illuminismo politico nella Trilogia sono costantemente contraddetti dall’insorgere delle emozioni, dal processo di interazione con il mondo da cui l’esistenza prende forma.
Così come in Veronica, nei Tre colori l’unica soluzione al conflitto razionale tra individuo e mondo nel suo ciclo di perenne instabilità, è la forza motrice, oscura e inoppugnabile, dell’amore, impulso che è alla base del perpetuarsi della vita, e che rompe gli asfittici confini dell’individualità. Un amore che non è salvifico, ma che permette di sentire la vita, di riallacciarsi al suo senso. Amore inteso però in senso paolino, come agape, spinta contraria all’indifferenza, il saper farsi toccare dal mondo: quello del tredicesimo versetto della Lettera di San Paolo ai Corinti che Patrice De Corsy, il compositore che muore all’inizio di Film blu (1993), lasciando nella solitudine del senso di colpa la moglie Julie, inserisce in forma di cantata nel suo postumo “Concerto per l’unificazione dell’Europa” (anche qui, ritorna l’elemento del canto come qualcosa di umano che travalica l’esistenza).
In Film blu il dramma di Julie, che non sapendo uccidere se stessa, nel rifiuto del dolore della perdita della sua famiglia, tenta disperatamente di uccidere le proprie emozioni, è quello di una liberazione tanto dal suo amore spezzato dalla morte (quel passato che le toglie il respiro), quanto dalla verità (quella dell’infedeltà del marito), il cui velo di menzogna è strappato dal caso, e non fa che anticipare una catastrofe annunciata: la nascita del figlio di Sandrine, l’amante dell’uomo. Conto alla rovescia inevitabile, silenziosa ipoteca su un futuro illusorio di possibile armonia di coppia che è allo stesso tempo, letteralmente, una palingenesi, una ri-nascita. Il blu come tonalità della tristezza, designa un elemento di irrinunciabile melanconia saturnina in cui galleggia, sospesa al filo di eventi che la sovrastano, Julie. Un gorgo da cui può uscire solo diventando “regista” dell’unico autentico lascito del marito, il figlio: la vita che irrompe e cambia il senso delle cose. Un figlio non suo, a cui Julie donerà la casa e il nome del marito: come in Veronica, dunque, un nuovo passaggio di consegne tra una vita che si spegne, e una che ri-nasce.
Per un attimo a Julie, mentre inseguiva la rivale Sandrine nei corridoi del Tribunale in Film blu, veniva impedito l’accesso all’aula in cui si celebrava un processo a cui partecipava la donna come avvocato. Lì un uomo parlava disperatamente in polacco con la corte, tradotto in francese dal suo legale, invocando “uguaglianza”. Film bianco (1994) narra la storia di quell’uomo intravisto per un attimo di spalle: il parrucchiere polacco Karol, da cui la moglie francese Dominique vuole divorziare, accusandolo di impotenza psicologica: da quando l’ha sposata, infatti, non è riuscito più a farci l’amore. La paradossalità di quest’istanza di divorzio, in cui si parlano due lingue differenti, metaforizza il conflitto tra due mondi, l’Est e l’Ovest ricongiunti dalla caduta del Muro, che dopo il retorico trionfalismo sull’unificazione dei popoli d’Europa (Europa che torna, a cui aveva dedicato il Concerto il compositore morto di Film blu), si ritrovano di fronte a un matrimonio impossibile, in cui l’Est ex-socialista non può essere all’altezza se non “imitando” l’opulenza superficiale dell’Ovest.
Kieślowski torna a girare a Varsavia, metaforizzando la sua personale condizione di spaesamento, la sua “doppia vita” tra Francia e Polonia: quella di un regista che non può rinnegare la sua diversa sensibilità espressiva, quell’ipetrofia immaginifica, scaturita dalla forza artigianale di un cinema “povero” fatto soprattutto di idee, catapultato nelle dimensioni industriali del cinema francese. Lo fa costruendo una storia paradossale e bulgakoviana, giocata sul registro ironico e pervasa di un radicale realismo magico di ripelliniana memoria, quello tipico delle culture letterarie est-europee, dove il bianco della sovraesposizione, il colore dell’ “abbaglio” occidentale, predomina. Film bianco è l’odissea meschina di un parrucchiere, che come un Ulisse clandestino torna in patria per lasciarsi alle spalle un amore impossibile, e si ritrova nel nascente, spietato cinismo del capitalismo selvaggio di una società frustrata e infantile, quella polacca, che del vecchio “Occidente” ha mutuato solo l’opportunistica logica del potere economico. La storia di un “esule in patria”, dunque, che può riscattarsi di fronte alla moglie solo tramite la vendetta: quella di un “Fu Mattia Pascal” dell’affermazione economica, a cui il Dio Denaro assicurerà un’uguaglianza che non c’è, raggiungibile unicamente con la forza e con il raggiro: denaro che diventa, infine, il grottesco simbolo della riguadagnata (agli occhi della moglie occidentale) “potenza” sessuale.
Con Film rosso (1994), Kieślowski chiude il cerchio di questo viaggio nell’occidente europeo, dove tutti i personaggi dei tre film si ritroveranno metaforicamente insieme nel finale del naufragio del traghetto. Qui il regista affronta il solo dei tre principi rivoluzionari che apre all’empatia e al rapporto con l’altro: quello della fratellanza. A essere portatrice inconsapevole di questo valore empatico che è morale e puramente istintuale, è Valentine, interpretata da Iréne Jacob, che aveva già incarnato la doppia Veronica: il solo personaggio dell’intera Trilogia che sente la vita altrui senza essere ripiegata su se stessa. È qui che si manifesta la più potente immagine emulsiva della Trilogia, quella che resta a galla di tutti e tre i film nella sua essenza autonoma e misteriosa: la vecchia donna in difficoltà davanti alla campana dei rifiuti di vetro, che cerca di gettare una bottiglia senza riuscirci. Ed è emblematico che l’unico personaggio della Trilogia ad “accorgersi” della vecchia sia proprio la giovane modella, che aiuterà la donna a portare a compimento il suo proposito elementare, eppure per lei impossibile.
La tela delle coincidenze e il gioco di specchi tra vite differenti (ancora una duplicità-unicità, dunque), in Film rosso mette a confronto il percorso di Auguste, neolaureato in giurisprudenza che sta per diventare giudice, con l’imputato del primo caso che gli verrà affidato: quello di un vecchio Giudice che, come un Dio stanco e sfiduciato nei confronti di una possibile verità dell’esistenza, si nutre perversamente delle vite degli altri, che spia intercettandone in silenzio le conversazioni telefoniche in una casa sommersa dai libri (che ricorda quella del protagonista del romanzo Una solitudine troppo rumorosa del céco Hrabal). Il disincantato distacco con cui ascolta le altrui vicende, si schianta però sull’ingenuità, l’incapacità di vedere il male di Valentine, che irrompe per caso nella sua vita, investendo il suo cane.
Due mondi opposti, quello di un umbratile eremita tecnologico e quello di una solare “ragazza copertina”, confluiscono in una forma di superamento della solitudine che in modi diversi attanaglia entrambi. Il rosso sgargiante dei cartelloni pubblicitari di Valentine, e quello umbratile degli interni della casa del Giudice, confluiscono in un sentimento condiviso: quello della pietà per l’umano. Al punto che il Giudice arriverà ad autodenunciarsi per le intercettazioni pur di rivedere la ragazza, e proseguire questa forma ideale di amore senza legame, fatto di tenerezza, silenzi condivisi e comprensione. Auguste, che lo giudicherà per il reato delle intercettazioni, sembra non essere altri che il Giudice trent’anni prima, all’inizio della sua carriera, ancora pieno di illusioni di giustizia e delusioni d’amore. Sarà proprio Auguste, nella scena del naufragio, a incontrare per caso Valentine, e a raccogliere la staffetta del sentimento del vecchio Giudice, iniziando con la ragazza il percorso dell’amore: l’uomo guarda soddisfatto la scena dell’incontro in un servizio televisivo, e sorride. Come se fosse riuscito a concretizzare l’utopia di riportare se stesso indietro nel tempo, ad amare Valentine per trasposta persona.
Mistero, caso, coincidenza, inesplicabilità degli eventi e chiarezza cristallina delle emozioni in gioco, sono gli elementi fondanti della poetica del “periodo francese” di Kieślowski, dove il cineasta dà corpo alla sua sensibilità “orientale”, ad un “realismo magico” che si snoda in opere costruite come teoremi attraverso indizi ambivalenti e metaforici, costantemente disseminati nelle vicende (come quello del flautista senzatetto che suona senza conoscerla la melodia del “Concerto per l’Europa” in Film blu). In un tempo scolpito che resta sospeso nell’interiorità dei personaggi, e di lì si rispecchia negli eventi casuali e simbolici dell’esistenza: dove prende corpo l’aspetto impronunciabile delle emozioni trasposte nella materia sensibile dei silenzi, nell’impercettibile eppure evidente discorso del mondo.
Krzysztof Kieślowski, Varsavia 1941 – Varsavia 1996.