Ero disorientata, impaurita,
non riuscivo a trovare un’armonia tra me e la vita.
La madre di famiglia, il destino che mi aspettava,
mi faceva più paura di tutto […]
Io volevo lavorare.
Ma anche conoscere, leggere, capire. Esistere.
Monica Vitti
Con un approccio metodologico a cavallo tra gender studies e cultural studies, l’oggetto di studio del saggio di Maria Elena D’Amelio è, come indicato dal titolo, La Diva Madre. Saggi su maternità e divismo nel cinema italiano. La diva, il divismo cinematografico viene letto attraverso la lente della rappresentazione del materno e – ulteriore specificità del volume – non solo attraverso i personaggi materni interpretati dalle dive sullo schermo ma anche tramite la ricostruzione della star persona delle stesse dive, cioè come queste venivano raccontate e rappresentate nei media dell’epoca, in particolare sulla stampa popolare e sui rotocalchi. Tale dinamica on screen/off screen conferisce quindi al discorso articolato dall’autrice nel suo saggio una peculiare circolarità tra la rappresentazione cinematografica e mediale da un lato e i discorsi culturali e sociali dall’altro. Unendo infatti all’analisi della storia del divismo quella degli studi di genere di tradizione femminista, l’autrice riesce ad indagare come la maternità delle dive, sia quella finzionale rappresentata sullo schermo che quella “reale” raccontata sulla stampa, abbia contribuito a rendere manifesti una serie di tabù sul materno che la società italiana del momento stava affrontando riferiti a separazioni, figli illegittimi, ragazze-madri e in generale all’ambito della sessualità femminile.
La periodizzazione scelta (anni cinquanta-settanta) è giustificata dall’età dell’oro del cinema italiano ma anche da un periodo in cui la società italiana vede il graduale sgretolarsi della famiglia patriarcale attraverso un cambiamento, anche legislativo, del diritto di famiglia (legge Merlin sull’abolizione delle case di tolleranza, approvazione del divorzio e dell’interruzione volontaria di gravidanza, ecc.). Lo sforzo fatto dall’autrice è quindi quello di considerare il divenire madre come un’esperienza soggettiva, individuale e personale ma sempre in relazione con l’ampio contesto sociale e storicamente determinato di riferimento, da cui deriva un’idea e un’immagine di maternità sempre soggetta a cambiamenti di significato in linea con le trasformazioni storiche, sociali e culturali del Paese.
Ora, ripercorrendo la filmografia del periodo preso in esame, i film da ricostruire intorno al tema della maternità sarebbero stati pressoché coincidenti con quasi l’intera filmografia del cinema italiano, perciò l’operazione di D’Amelio è interessante anche da un altro punto di vista, che riguarda la scelta di concentrarsi su alcune figure specifiche di dive intorno alle quali tessere il suo discorso su divismo e maternità nel cinema italiano. Torniamo infatti ancora al titolo: non siamo solo di fronte a dive e madri e neanche alla dicotomia dive o madri (cioè la difficile relazione tra sessualità e maternità che, con esiti diversi, arriva fino all’oggi); bensì si tratta di dive/madri: non solo cioè un «pensare la storia del cinema italiano nei termini di una genealogia femminile, costruita attorno alla messa in scena della relazione materna» (Cardone 2013, p. 205), ma scegliere delle attrici come casi di studio – Anna Magnani nel secondo capitolo, Ingrid Bergman e Sophia Loren nel terzo, Claudia Cardinale e Stefania Sandrelli nel quarto –, attrici iconiche sia di uno statuto divistico consolidato anche a livello internazionale, ovvero pienamente riconosciute come dive, sia figure iconiche di madri sullo schermo, cioè con un capitale simbolico e commerciale legato all’immaginario materno, per lasciare emergere dei macro-eventi storici e sociali.
Ancor di più, ciò che rende queste dive e madri, le dive madri del titolo, risiede nel fatto che le attrici scelte sono state protagoniste di uno star scandal (scandalo divistico) che, secondo Lull e Hinerman scoppia quando «i desideri intimi di persone famose prevalgono sulle aspettative, le norme e le pratiche sociali del tempo» (cit. in D’Amelio 2024, p. 43). Lo star scandal delle attrici prese in considerazione è centrato proprio sulla maternità: le interrogazioni parlamentari di Bergman, il “matrimonio messicano” con le accuse di bigamia di Loren, la maternità fuori dal matrimonio di Cardinale e Sandrelli, e l’annullamento del matrimonio di Magnani, dopo aver avuto già un figlio extra-coniugale.
Quello che fa D’Amelio è quindi evidenziare come la funzione mitopoietica delle dive (Morin 2021), cioè la capacità delle attrici di creare dei miti intorno alla loro figura, si coniughi con il discorso collettivo sulla maternità che quella stessa attrice veicola e rappresenta. Pertanto, ulteriore merito del lavoro interdisciplinare dell’autrice sta nella capacità di aver fatto dialogare, tenendoli insieme, materiali eterogenei che non riguardano solo la storia del cinema ma l’ambito giuridico e privato, come ad esempio, il materiale archivistico delle carte processuali (la sentenza Alessandrini Goffredo/Magnani Anna 171/195) con l’immagine pubblica della diva Magnani e la sua recitazione. Dirompente, da questo punto di vista, la diagnosi di “nevrosi isterica” di Anna Magnani che ci riconsegna un’immagine dell’attrice scissa tra la donna isterica di metà Ottocento per come emerge dalle carte processuali e la madre moderna, passionale e combattiva che non si esaurisce nel suo essere madre, costruita dalla sua immagine cinematografica fin dalla tragica morte per strada nella corsa di Pina, donna incinta, in Roma città aperta (Rossellini, 1945) che apre «ad un inedito protagonismo materno e femminile» (Cardone 2013, p. 207).
La perizia riportata da D’Amelio racconta infatti a mo’ di sceneggiatura teatrale la prima notte di nozze dei coniugi e la visita ginecologica dell’attrice che si può leggere come una «mascherata isterica, dove l’immagine divistica dell’attrice contribuisce a ispirare la diagnosi medica» (D’Amelio 2024, p. 67), nel senso che, considerando che molte delle diagnosi dell’epoca erano fittizie, si può ipotizzare come l’attrice si sia sottoposta volontariamente ad essere patologizzata come isterica per potersi liberare di un legame istituzionale che le leggi dell’epoca non consentivano d’interrompere diversamente, scegliendo quindi di assoggettare il suo corpo al potere medico per potersi liberare, come donna, del potere giuridico.
Nel terzo capitolo vengono invece affrontate “le madri dello scandalo”, Bergman e Loren, per evidenziare come gli scandali sentimentali e sessuali che coinvolsero le dive riuscirono ad essere redenti sia attraverso i personaggi cinematografici interpretati (la “trilogia della solitudine” dei primi tre film rosselliniani di Bergman – Stromboli, Europa 51 e Viaggio in Italia –, La Ciociara, Matrimonio all’italiana e l’episodio Adelina di Ieri, oggi e domani di Loren), sia attraverso il racconto divistico fatto sui rotocalchi, in particolare il settimanale “Oggi”, ma anche quelli di orientamento cattolico come “Così” e “Famiglia cristiana” volti a esaltare le dive nei ruoli tradizionali di mogli e madri, riducendo e in tal modo minimizzando i comportamenti sessuali devianti alla straordinarietà della vita da star.
Un ulteriore filo sottile non riportato nel libro ma che collega idealmente il secondo e il terzo capitolo continuando a intrecciare storia cinematografica e vita privata è dato dalla famosa “guerra dei vulcani”, nata quando Rossellini si innamorò di Bergman rendendola protagonista del suo Stromboli, e strappando il ruolo alla sua compagna dell’epoca Anna Magnani che, a quel punto, girò Vulcano, nella stessa isola, nello stesso anno (il 1950), con William Dieterle. Anche quest’episodio ha sicuramente influito sulla costruzione dell’immagine di Bergman come “rovina famiglie” se, come racconta Alliata della Panaria Film, durante la prima di Vulcano la sala a metà si svuotò perché trapelò la notizia della nascita del figlio di Rossellini e Bergman e tutti i giornalisti accorsero per seguire la vicenda privata della diva.
Infine, se ad esempio con Sophia Loren, nonostante la prorompenza delle sue azioni, ci troviamo ancora di fronte a una donna figlia del suo tempo che ha interiorizzato il sistema a due misure legato alla sessualità femminile tipico del patriarcato – come dimostra la posizione conservatrice riguardante la fedeltà della coppia sposata espressa in un’intervista al settimanale “Oggi”: “Bisogna essere indulgenti verso il coniuge, inflessibili verso l’adultera” – è con i casi di studio delle madri nubili Claudia Cardinale e Stefania Sandrelli che si arriva, nel quarto capitolo, alla delineazione dei tratti della diva madre moderna. A tal proposito molto utili al lavoro di D’Amelio sono ancora una volta le analisi dei rotocalchi dell’epoca, da cui risulta il ritratto di una figura femminile nuova che rifiuta di farsi ingabbiare in una narrazione vittimistica da “ragazza perduta” e rivendica la decisione di aver scelto e voluto una maternità fuori dal matrimonio; e le autobiografie delle dive, come quella in cui Claudia Cardinale racconta di come il produttore Cristaldi della Vides abbia esercitato un controllo dispotico non solo sulla sua carriera ma anche sulla sua vita privata, a scapito di quanto invece dichiarava all’epoca sulle interviste dei rotocalchi presentando il produttore come un aiutante della sua maternità segreta (ivi, pp. 101-102).
Se in Claudia Cardinale persiste quindi ancora il vivere lo scandolo con sofferenza, è con Stefania Sandrelli che si ha l’immagine della vera madre moderna, non solo per i personaggi cinematografici interpretati sullo schermo (uno su tutti il “soggetto imprevisto” dell’Adriana Astarelli di Io la conoscevo bene), ma anche per la reticenza con cui si relaziona alla stampa rispetto alla sua vita privata: “Sono affari miei” risponde alle domande indiscrete sul suo rapporto con Gino Paoli e la nascita della figlia Amanda. E, con non poca suggestione, così come il corpo non più prosperoso delle maggiorate ma quello esile dell’Adriana/Sandrelli di Io la conoscevo bene (1965) non era già più incasellabile nella dicotomia madre/prostituta, allo stesso modo la Sandrelli/Parthenope (dell’omonimo film di Sorrentino) si conferma una donna, come lo era stata già quella di Pietrangeli, che rifiuta il matrimonio e la maternità, e che si dona solo per «desiderio, amore, curiosità» (ivi, p. 105).
Arrivando quindi ai nostri giorni, rispetto al rinnovato interesse per l’intreccio tra maternità e divismo che si sviluppa a partire dagli anni novanta, l’autrice ricorda la copertina di “Vanity Fair” del 1991 che ritrae Demi Moore, appena separata dal compagno Bruce Willis, nuda e incinta, ma ci piace ricordare anche che è sempre all’inizio degli anni novanta che un’altra attrice, italiana, viene consacrata a diva del cinema erotico da Tinto Brass con Così fan tutte (1992), Claudia Koll, la quale, com’è noto, per il resto della sua carriera affermò poi più volte di essersi pentita di quell’esperienza, adottò due figli, si convertì alla religione cattolica e da allora recitò in film per la televisione a tema religioso come Maria Goretti (2003) e San Pietro (2005).
Alla domanda che l’autrice ci lascia come auspicio di future ricerche – “Chi sono oggi le nuove dive madri?” – potremmo rispondere riprendendo un articolo di Vittorio Spinazzola apparso negli anni sessanta su “Oggi” intitolato Belle e materne in cui l’autore, analizzando la femminilità rassicurante di attrici diventate di successo perché “belle e materne” appunto, ne derivava un’immagine della maternità intesa come dispositivo di controllo della minaccia che una sessualità femminile più libera e dunque più potente avrebbe potuto innescare nel pubblico. Ebbene, nonostante i cambiamenti sociali e culturali legati al tema della maternità, della famiglia, della sessualità in atto dagli anni ‘70 ai giorni nostri, il materno continua a configurarsi come una campo di battaglia aperto, forse leggermente incrinato, nella sua rappresentazione, dal cinema alle piattaforme digitali: pensiamo al fenomeno delle mamme-influencer e al caso emblematico del personaggio transmediale di Chiara Ferragni in cui «l’identità materna diventa parte del self branding e viene inquadrata nell’enfasi neoliberista della scelta individuale e della mentalità dell’“avere tutto”», in cui cioè viene attribuita nuova importanza economica e sociale al lavoro di cura materno (ivi, pp. 124-125). In altre (e ancor più preoccupanti) parole, la complessità e contraddittorietà dei discorsi sulle dive/madri di oggi si potrebbe tradurre in: belle, materne e di successo.
Riferimenti bibliografici
L. Cardone, Madri, in “Quaderni del CSCI: rivista annuale di cinema italiano”, fasc. 9, 2013.
L. Cardone, Donne impreviste, Segni del desiderio femminile nel cinema italiano degli anni Sessanta, in “Cinergie – Il Cinema e Le Altre Arti”, fasc. 5, 2014.
E. Morin, Le star, Cue Press, Imola 2021.
Maria Elena D’Amelio, La diva madre. Saggi su maternità e divismo nel cinema italiano, Meltemi, Milano 2024.