Due fratelli (Armand e Joseph), una sorella (Angèle), nella vecchia casa di famiglia, una villa sul mare a Méjan, vicino Marsiglia, dove il loro padre è stato colpito da un ictus. Ancora il consueto universo familiare di Robert Guédiguian, regista e produttore d’origini tedesco-armene, nato a Marsiglia, e dunque marsigliese a tutti gli effetti, se è vero che tutti i marsigliesi sono di origini miste: stessi attori, solita ambientazione. Cosa cambia rispetto a Ki lo sa? (1995) o Le nevi del Kilimangiaro (2011)? Niente, salvo gli effetti del tempo che passa, cioè tutto.
Guédiguian, in questo senso, si muove sempre sul filo del rasoio, tra impegno politico, fedeltà all’utopia e simpatie operaie, senza temere le scivolate nel patetico. Il suo è un cinema classico, sincero, che spesso ambienta in Francia, a Marsiglia e dintorni, i segni e i modi del grande cinema familiare giapponese, quello di Ozu, di Naruse, di Yamada. I treni che passano veloci sull’altissimo viadotto di Méjan potrebbero benissimo essere diretti a Tokyo, o provenirne. Le case, i vicoli, le terrazze, gli scorci di strade, al cui fondo si intravvede il mare, di film in film, danno l’impressione di restare uguali, anche se in realtà cambiano: un porto di pescatori, un paesaggio di bellezza incontaminata, sta per diventare attrazione turistica, per una clientela facoltosa. il processo d’espulsione dei vecchi residenti è da tempo avviato. Il sole, tuttavia, resta lo stesso, come l’azzurro del mare. La terrazza costruita a suo tempo con le proprie mani guarda ancora l’infinito.
Il tempo potrebbe anche essersi fermato, nella baia degli angeli. L’unico modo per rendersi conto del suo passaggio è costatarne l’effetto sui corpi, sui corpi degli attori, prima ancora che dei personaggi, da un film all’altro. Solo in un flashback, in una rievocazione che ha i caratteri del sogno, possiamo rivedere i tre protagonisti di trent’anni più giovani, mentre scorrazzano felici in macchina per le stesse strade, sotto lo stesso sole (è un inserto di Ki lo sa?). La storia de La casa sul mare è diversa, ma non importa. Gli attori sono gli stessi, anche se sappiamo bene che non possono essere gli stessi. Ne Le nevi del Kilimangaro, Guédiguian rivolgeva una dichiarazione d’amore a sua moglie, ad Ariane Ascaride per interposta persona, tramite Jean-Pierre Daroussin, che interpretava il ruolo del marito. Gérard Meylan era un amico.
Ne La casa sul mare, sono tre fratelli, e Ariane è Angèle, un’attrice, come nella realtà (anche se, nella realtà, non ama Paul Claudel, né come uomo, né come poeta). Daroussin è Joseph, politico deluso, con una fidanzata che potrebbe essere sua figlia. Meylan è Armand, che si sforza di mandare avanti un piccolo ristorante e si è sempre preso cura del padre. Poi ci sono due anziani coniugi, in condizioni economiche precarie, che hanno deciso di non accettare l’aiuto finanziario del figlio, medico affermato, e vogliono morire insieme. Perché? Perché è bello morire insieme, dopo aver vissuto insieme tutta la vita. E c’è Benjamin, un pescatore-poeta, che ama i versi di Claudel ed è da sempre innamorato di Angèle. Personaggi che si confondono con gli attori, attori che si confondono coi personaggi, figure nel paesaggio, bagnate da una luce che sembra immutabile.
Per Armand, si tratta di mantenere agibili i vecchi sentieri, che la vegetazione e l’incuria umana tenderebbero a far scomparire. D’estate c’è pericolo d’incendi, sulla costa, ed è bene che i sentieri si mantengano percorribili agli automezzi dei pompieri – ma non è solo questo. È comunque bene che i vecchi sentieri non siano interrotti, anche se non dovesse passarci più nessuno. O in alternativa, come forse preferirebbe Joseph, si possono tracciare sentieri nuovi. Più complicata la situazione di Angèle, più problematico il suo ritorno. In quel luogo, tanti anni prima, era morta annegata sua figlia, una bambina affidata, per le vacanze, alla custodia dei nonni, e lasciata un attimo solo per una banale distrazione. Angèle, per questo, non ha mai perdonato suo padre. Alla notizia dell’ictus è tornata, ma non sa bene perché: è come se fosse tornata contro la sua volontà, quasi spinta da un segreto richiamo arcaico, qualcosa che ha a che fare con legami misteriosi, e forse anche col perdono. Oppure si tratta di un’oscura premonizione: a un padre semi-morto, a due anziani suicidi, per miracolo corrisponde l’arrivo di tre bambini, due fratelli e una sorella, migranti, forse dalla Siria, sopravvissuti chissà come a qualche naufragio. Si può anche dire che qui il regista abbia esagerato in simmetria, ma il mare porta il dono dei migranti e il dono deve essere accettato.
Riferimenti bibliografici
J. Mai, Robert Guédiguian, Manchester University Press, Manchester 2017.