La casa di Jack, ultima fatica di Lars von Trier, è un film che fa discutere. Credo sia facile metterne in rilievo i difetti: lo stile del regista mostra la corda rispetto ai suoi film precedenti. Condivido queste riserve. Poiché richiede una disposizione libera e autonoma, la critica comporta infatti l’esercizio di un giudizio, da cui la “cassetta degli attrezzi” della pura analisi concettuale risulta rigenerata. Si può dire – mi sto muovendo nel solco della lezione kantiana – che il giudizio critico, o estetico tout court, grazie ai suoi tratti di riflessività, autonomia e attenzione per il contesto, ristruttura il modo di pensare di chi giudica; in questo modo lo predispone anche a considerare le cose del mondo secondo la tonalità emotiva che sembra più conveniente a un determinato momento storico.

Date le premesse, a non convincere in La casa di Jack è il tentativo di estetizzazione del male che l’autore ci propone attraverso il ritratto di un nuovo personaggio nero, malato e perverso, cui dà corpo sondando i recessi della patologia, dell’immaginario religioso e della rappresentazione letteraria della malvagità. Questo tentativo di estetizzazione del male obbedisce ad alcuni criteri precisi e ormai ben riconoscibili nello stile di Von Trier: l’ambiguità della posizione del narratore; l’organizzazione del racconto in “capitoli”; l’uso intermediale dell’immagine storica d’archivio e del disegno.

In quanto tali, gli accorgimenti appena citati potrebbero benissimo essere usati in un verso o nel suo opposto: tutto dipende dall’idea generale che l’autore lascia intravedere nell’opera. Ora, è fin troppo evidente l’intenzione di Von Trier di presentare l’omicidio, o meglio l’omicidio seriale, come una forma d’arte. Ed è fin troppo chiaro che il protagonista, Jack (Matt Dillon), è un esteta. Non sappiamo fino a che punto sia un esteta fallito, un mero ingegnere e un mancato architetto, né in che misura la voce che rappresenta il testimone (l’appena scomparso Bruno Ganz) del racconto di Jack simpatizzi con lui (ed eventualmente se simpatizzi con il fallito o con l’idealista) oppure se lo detesti.

La poetica dell’omicidio come arte esposta da Jack nel primo “incidente” è chiara: è l’incontro tra lo strumento e la materia a cui esso si applica, tra il cric incautamente posato accanto al cambio da una morbosa signora con l’auto in panne (Uma Thurman) e il suo volto spappolato con lo stesso cric. È l’arte che riesce a essere allo stesso tempo tecnica (techne, ars) e arte in senso estetico moderno, esibizione del bello (come degradazione, così come ci verrà spiegato). D’altronde, com’è stato fatto notare (Escobar 2019), Jack è Jack lo Squartatore, ma è anche semplicemente il jack, il cric, il mero strumento.

Von Trier sembra preferire nettamente il significato letterario del nome del suo protagonista a quello letterale: così, l’iper-estetizzazione della vita finisce per mettere in ombra la sua iper-tecnologizzazione. A suo sostegno il regista chiama in causa il canone letterario occidentale: Dante, Blake, la mitologia. Evoca le grandi tragedie novecentesche: gli stermini di massa, i genocidi, la violenza fatta legge. Strizza l’occhio a una presunta cattiva coscienza borghese, probabilmente defunta da tempo insieme alla sua classe d’appartenenza, piuttosto che affrontare il problema del potere distruttivo delle immagini. Ovviamente non mancando di suggerire allo spettatore che la sua filmografia precedente costituisce una parte, e non la minore, di questa storia mondiale.

Eppure c’è il sospetto che l’idea debba essere balenata nella sua mente. Mi riferisco alla scelta di Uma Thurman, cioè dell’attrice feticcio di Quentin Tarantino, per il primo episodio del film, quello che serve a Jack per presentare i fondamenti della sua teoria estetica dell’omicidio. Il regista e l’attrice hanno già lavorato insieme; e tuttavia la scelta proprio per questo ruolo mi sembra significativa. È una Uma non più erotica e inquietante moglie tossica di un boss della mala (Pulp Fiction) o fascinosa combattente di arti marziali, sterminatrice per vendetta (Kill Bill); non è nemmeno una desperate housewife, come ce l’ha voluta presentare lo stesso Von Trier in Nymphomaniac (2014). Al contrario, è un’elegantissima signora di mezz’età; resta però un personaggio che prova un’attrazione irresistibile per il male e per la violenza, attrazione che stavolta paga con la vita. Ma se c’è un’attrice che con i suoi sguardi ha saputo incarnare nel cinema degli ultimi decenni il piacere della violenza, il godimento del dolore, dunque l’estetizzazione del male, è proprio Uma Thurman.

E lo ha fatto, guarda caso, in film, quelli appena citati di Tarantino, pensati per capitoli, con una scansione letteraria molto simile a quella scelta da Von Trier. Solo che, in questa regressione verso la dimensione letteraria del racconto, l’immagine non viene ridotta da Tarantino, a differenza di quanto fa Von Trier, a mero elemento di citazione testuale. L’immagine – il dettaglio, l’inquadratura ravvicinata – funzionano come un vero e proprio artificio letterario: sono, per dirla con Eliot (2010), il correlativo oggettivo di un sentimento. Questo è l’estetismo nero che non solo sopportiamo, ma che ci piace addirittura nel cinema: la più spregiudicata esibizione di quanto pathos, anche omicida, può accogliere un’inquadratura.

Riferimenti bibliografici
T.S. Eliot, Il bosco sacro, Bompiani, Milano 2010.
R. Escobar, Troppe maiuscole, caro Lars, in “Domenicale de Il Sole 24 Ore”, 3 marzo 2019.
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999.

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