Fin dalle primissime inquadrature, La cache, diretto da Lionel Baier e sceneggiato da Catherine Charrier adattando l’omonimo romanzo del 2015 di Christophe Boltanski, denuncia la sua fonte letteraria esplicitamente. La macchina da presa indugia sul dettaglio delle pagine del libro, soffermandosi su alcune frasi essenziali che costituiranno lo scheletro dell’opera filmica. Ad accompagnare le immagini interviene una voce fuori campo, la quale rivela allo spettatore che quella cui sta per assistere è una narrazione: la storia della vita di una famiglia, quella dello scrittore stesso, in un momento storico decisivo per la Francia, ovvero il maggio 1968.
In questo modo, il patto narrativo con lo spettatore, in genere solo suggerito, diviene scoperto. La voce narrante promette di raccontare solo la verità, ma una verità ben precisa: quella della famiglia protagonista. Sulla scia della Nouvelle Vague, il regista assume una direzione stilistica specifica, che consiste nel rendere evidenti le marche di enunciazione. Nel corso dei suoi vari interventi, infatti, il narratore ricorda più volte allo spettatore che si trova all’interno di un film, di una costruzione artistica.
Tale soluzione registica, inoltre, conferisce alla voce narrante una connotazione ambigua e bifronte. L’impressione è che si tratti di una voce collocata al di fuori della diegesi, pur apparendo coinvolta, a tratti anche emotivamente, nelle vicende. In certo qual modo, la sensazione che ne deriva è che sia sovrapposta al corpo infantile del giovane protagonista, quasi a volerne seguire i passi. Il punto di vista, dunque, si abbassa fino ad ibridarsi con lo sguardo del bambino, attraverso il quale il pubblico partecipa attivamente alle peripezie vissute dalla famiglia rappresentata sullo schermo.
I membri che compongono il piccolo microcosmo relazionale non hanno un nome proprio, ma sono definiti solo dal ruolo che occupano al suo interno. Essi si muovono e agiscono come un «corpo unico», organi interdipendenti di un ingranaggio complesso e stratificato, che, a sua volta, è parte integrante della macchina ancora più grande e intricata della Storia. Quest’ultima aleggia sullo schermo quale presenza costante e ripetutamente verbalizzata dai personaggi, ma non viene mai direttamente messa in scena. Gli eventi storici e le esistenze private che si dipanano sullo schermo si influenzano mutualmente, ma i primi restano relegati ai bordi dell’inquadratura, come il flusso infuocato dei manifestanti, che è visibile solo parzialmente oltre il cancello sbarrato; oppure irrompono violentemente sulla scena mediante i notiziari e i radio-giornali e impongono così la propria presenza, lacerando il flessibile confine membranaceo tra campo e fuori campo.
Pur non essendo vista, la Storia funge da protagonista ancillare, in quanto agisce in profondità sulle vite dei personaggi e le modifica. Un caso emblematico è proprio quello del giovane personaggio principale, i cui genitori partecipano attivamente ai moti di ribellione e che, per questa ragione, viene affidato allo sgangherato gruppo familiare che abita le stanze di Rue de Grenelle. Ma tutti contribuiscono, in qualche misura, al determinarsi delle vicende storiche: la nonna, che in pubblico diventa zia, la quale si occupa di raccogliere le testimonianze degli operai sfruttati e sottopagati, per restituire loro una voce e una dignità; il nonno, cardiologo instancabile, che soffre ancora le conseguenze dell’antisemitismo; gli zii, un intellettuale sagace e un artista insicuro e, infine, la bisnonna, cuore pulsante della famiglia e forza centrifuga che attrae e organizza attorno a sé le vite degli altri membri della figlia. Ciascuno di essi interagisce con la Storia e la plasma secondo le sue attitudini, rendendo il film, di fatto, una narrazione corale, un patchwork di prospettive e riflessioni intorno a un preciso momento storico: il maggio 1968. Ciò che sembra interessare al regista, dunque, è il contributo individuale fornito alla Storia, l’intervento del singolo che ne struttura e ne direziona gli ingranaggi. C’è un solo momento in cui la Storia viene esplicitamente messa in scena, ma, ancora una volta, incarnata in una precisa figura umana. Si tratta del momento in cui Charles de Gaulle irrompe nell’appartamento della famiglia per chiedere di essere nascosto dalle sue guardie, dopo aver lasciato intendere di volersi ritirare a causa della crisi politica in corso.
Il nascondiglio usato per proteggere il presidente è lo stesso in cui si rifugiava durante la guerra il nonno per evitare i rastrellamenti a cui venivano sottoposti gli ebrei. La sua collocazione è simbolica: nel ventre dell’abitazione, sotto il pavimento. L’architettura della casa, dunque, assume una funzione specifica. L’appartamento in cui la famiglia vive è una sorta di suo alter-ego di mura e mattoni, un analogo microcosmo centrifugo che attira perennemente verso di sé i vari componenti che lo animano. Come sostiene Bachelard: la casa «è corpo e anima, è il primo mondo dell’essere umano» (1975, p. 35), confortando ulteriormente l’ipotesi che ci sia una piena sovrapposizione tra corpo familiare e abitazione. La planimetria della casa, dunque, riproduce mimeticamente i rapporti che intercorrono tra i membri della famiglia. I genitori e i due figli condividono la stessa camera da letto, che viene a rappresentare, pertanto, il correlativo di un rapporto simbiotico che li rende, appunto, «corpo unico». La cucina, cuore pulsante dell’abitazione, è il regno della bisnonna, la quale, sottolinea il narratore, da quel suo avamposto, nutre i familiari. Se, come sostiene Lévi Strauss, la cucina rispecchia la cultura di una società, la quale proietta in questa forma di linguaggio il proprio ordine e la propria struttura, allo stesso modo la cucina, da cui la bisnonna si occupa dei vari membri della famiglia, diviene la sede di elaborazione delle loro convinzioni politiche e sociali, trasmesse loro dalla personalità forte e combattiva della bisnonna. Ancora sulla scia di Lévi Strauss, dunque, si potrebbe sottolineare che la cucina, in questo modo, assuma anche la funzione di sede di creazione del nutrimento della mente.
Un ruolo ancor più essenziale è svolto dalla cavità nascosta sotto la superficie, sorta di nucleo cellulare, avvolto dal guscio protettivo del reticolo legnoso che struttura il pavimento. La collocazione del rifugio è assimilabile a quella della cantina, di cui Bachelard sostiene che è «l’essere oscuro della casa, l’essere che partecipa alle potenze sotterranee […]. Nella cantina si muovono essere più lenti, meno trotterellanti» (ivi, p. 46-47). Uno spazio di tal genere assume il ruolo di incarnazione fisica, di spazializzazione, del dolore e del trauma provocati dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle persecuzioni agli ebrei. I segni di questi eventi sono ancora incisi sul tessuto epidermico umano e strutturale. Bachelard scrive: «Attraverso lo spazio, nello spazio, rinveniamo i bei fossili della durata […]. L’inconscio soggiorna, i ricordi sono immobili, tanto più solidi quanto più e meglio vengono spazializzati» (ivi, p. 37). L’idea che i ricordi restino impigliati agli spazi e agli oggetti è resa visibile nella sequenza in cui, dinanzi alle guardie giunte a cercare De Gaulle, il figlio maggiore, preso da un moto di rabbia e vendetta, scaraventa per terra libri e vestiti, mostrando loro il modo in cui erano stati trattati durante la Seconda Guerra Mondiale.
Baier con La cache, pertanto, si propone di raccontare un determinato momento storico filtrandolo attraverso il punto di vista di un gruppo di individui, di cui assume la particolare prospettiva, le emozioni e le angosce. Questo lo porta a tracciare un ritratto colorito ed estremamente personale della Storia, di cui restituisce le sfumature soggettive che si agitano sotto la superficie degli eventi in attesa di essere riportate alla luce.
Riferimenti bibliografici
G. Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 1975.
La cache. Regia: Lionel Baier; sceneggiatura: Lionel Baier, Catherine Charrier; fotografia: Patrick Lindenmaier; montaggio: Pauline Gaillard; interpreti: Dominique Reymond, Michel Blanc, William Lebghil, Aurélien Gabrielli, Liliane Rovère; produzione: Bande à part Films; origine: Svizzera, Lussemburgo, Francia; durata: 90′; anno: 2025.