Titoli che salgono, titoli che scendono: come spiegare agli abitanti della modernità i misteri della Borsa – un’istituzione che nel Tre/Quattrocento nasce a Bruges (il nome deriva forse dalla famiglia Van der Bourse proprietaria del palazzo Ter Buerse) e nel Cinquecento s’impianta ad Anversa, Lione, Amsterdam, Francoforte sul Meno — così necessari all’economia capitalista? Max Weber, il Tonio Kröger della sociologia (come lo chiama Franco Ferrarotti per sottolinearne il contraddittorio oscillare fra storicismo e positivismo, giurisprudenza ed economia, azione politica e vita contemplativa), ci prova nel 1894 — trentenne, appena sposato, in fase di passaggio da Berlino a Friburgo dove l’attende una cattedra universitaria in Economia politica, e già pronto per partecipare come consulente ai lavori del Comitato per la nuova legislazione della Borsa (una riforma programmata dal Reichstag, a cui dedica la serie di saggi su rivista Ergebnisse derdeutschen Börsenenquete) — rivolgendosi ad un’opinione pubblica, e addirittura ad un fantomatico “movimento operaio” tutto da catechizzare, che ancora non conosce neppure il cinematografo Lumière.

La Borsa è dunque un’organizzazione del moderno traffico commerciale all’ingrosso, un luogo dove vengono effettuate transazioni (domanda/offerta) più complesse che nelle antiche fiere e mercati, riguardanti beni fungibili:

In Borsa un affare viene chiuso per una merce non fisicamente presente, spesso non ancora in circolazione, altrettanto spesso ancora da produrre, tra un acquirente che di regola non la conserva per sé ma che (possibilmente prima di accettarla e pagarla) vuole girarla con profitto, e un venditore che non ne possiede ancora e che per lo più non la produce da sé, ma che vuole procurarsi un profitto (Weber 2020, p. 14). 

La Borsa merci vende prodotti (beni in senso stretto: caffè ad Amburgo, petrolio a Brema e così via localizzando), la Borsa titoli vende denaro nelle sue varie forme (valuta estera, cambiali o tratte, azioni, fondi come titoli di Stato e obbligazioni: già a fine Ottocento il debito pubblico è un’ipoteca sul futuro). Max Weber, a soli vent’anni di distanza dal crack del 1873 (che segna la battuta d’arresto del Gründerzeit, la rivoluzione industriale tedesca), ci spiega cos’è una società per azioni, cosa gl’interessi e i dividendi, e insomma tutta la moderna economia di circolazione «che si basa sulla peculiarità che l’esistenza di ciascuno dipende continuamente dai frutti del lavoro degli altri e che ognuno lavora per soddisfare i bisogni dell’altro» (ivi, p. 38). Ci porta nelle più importanti sale Borsa di fine Ottocento, evidenziando la pedana che separa i brokers di New York, le tute blu che si mischiano agli agents de change di Parigi (giusto tre anni prima, nel 1891, è uscito il romanzo di Émile Zola L’Argent), il mercato di Amburgo visitabile da «tutto il composto pubblico maschile»; e ovviamente si sofferma sulla sua Berlino, dove «vengono escluse temporaneamente le persone che disturbano l’ordine, quelle che insultano membri della Borsa, che diffondono false voci o che diventano insolventi» (ivi, p. 57).

Questo accenno alle fake news va inserito nel problema più generale dell’informazione, degli effetti delle parole sui numeri (ben evidente con la nostra crisi del 2008, su cui è intervenuto Arjun Appadurai, il cui Scommettere sulle parole riparte proprio da Weber), dei rapporti fra media tecnologici e velocità della comunicazione: se la modernità è nata quando «si cominciò a inviare in Borsa gli ordini di acquisto e di vendita per corrispondenza» (ivi, p. 42), nell’epoca hegeliana delle nuove preghiere del mattino «il possessore di titoli di Stato, di azioni ecc. guarda le colonne dei giornali che contengono i prezzi di quei documenti, al fine di accertare quanto sia stimato il valore di ciò che possiede in Borsa» (ivi, p. 48). Chi ricorda il capolavoro di Antonioni L’eclisse (1962, a cavallo fra La dolce vita e La congiuntura, emblematici titoli di Fellini e Scola), dove il broker interpretato da Delon saltella da una cabina telefonica all’altra, può ben calcolare perché ai Lumière il loro cinematografo apparisse un’invenzione senza futuro: in un’economia in cui il tempo è denaro in quanto la velocità dell’informazione fa la differenza, la pellicola non ha nulla da offrire rispetto al giornale e tantomeno al telefono e poi ai collegamenti telematici; la Borsa non ha bisogno del cinema, medium lento – non protesi comunicativa ma tecnologia letteraria.

Titoli di testa, titoli di coda: senza inoltrarsi nella semantica dei credits, è possibile chiedersi se il cinema può almeno provare a descrivere la vita della Borsa, in una sorta di versione audiovisiva del lavoro di Weber? A fine 1928, un anno prima del crollo di Wall Street, esce il film (muto fuori tempo massimo) di Marcel L’Herbier L’Argent, tratto dal succitato romanzo di Zola: la prima immagine è l’esterno brulicante della Borsa di Parigi, poi si entra nel brulicante interno; il fatto che il film sia muto paradossalmente mette in evidenza i diversi livelli del circuito della parola, compreso l’uso del telefono con il suo contorno di cabine e di centraliniste pubbliche (non si scordi che la prima telefonata transatlantica, tra New York e Londra, è datata 7 gennaio 1927, quando L’Argent è in fase di produzione). Nel 1933, quando la grande depressione americana ha ormai infettato l’Europa (fra l’altro portando Hitler alla vittoria elettorale), esce l’esordio cinematografico del fotodinamista futurista Carlo Ludovico Bragaglia O la borsa o la vita, una commediola che si apre con la scena tragicomica di un Sergio Tofano broker fallito che, svenuto dopo aver letto il crollo di certi titoli, viene sostenuto e trasportato dalla folla che gremisce la sala Borsa; anche in questo film è centrale il ruolo dell’apparecchio telefonico, finalmente valorizzato dal sonoro, anche se la minaccia di suicidio la si scrive su una lettera consegnata a mano.

Il cinema, arte sociologica, sembra costretto ad affrontare i problemi dell’alta finanza quando diventano i problemi di sopravvivenza quotidiana della società-mondo: il 1987, anno del primo crollo dell’era infotech, è anche l’anno di Wall Street di Oliver Stone, dove il re dell’insider trading Gordon Gekko (un giovane Michael Douglas) dirige il suo impero finanziario attraverso un’organizzazione il cui cuore è il sistema telematico (anche se l’evoluzione del cellulare è ancora ferma ad un pateticamente grande e costosissimo Motorola); nel 2010, nel pieno della grande recessione mondiale partita dalla crisi del mercato immobiliare statunitense (bancarotta della Lehman Brothers), Wall Street – Il denaro non muore mai ripropone l’ormai sorpassato Gekko (un vecchio Michael Douglas) come cinico analista dell’avidità umana e dell’eterna tendenza dei mercati alle bolle finanziarie, dotato di una coscienza storica che gli permette di raccontare la bolla dei tulipani nell’Olanda del 1637.

Titoli di giornale, titoli di telegiornale, titoli on line: l’evoluzione dell’informazione di massa fa crescere la competenza media (ovvero l’incompetenza) dei ludopatici nei confronti dei giochi di Borsa, ma anche la sospettosità dei nostalgici anti-postmodernità nei confronti del finanzcapitalismo postindustriale. E il cinema contemporaneo ritrova i suoi legami con l’attualità producendo letture e riletture dei retroscena della crisi del terzo millennio, sia attraverso una fiction di taglio quasi brechtiano (si veda la tecnica dello straniamento nel biopic The Wolf of Wall Street, Scorsese 2013, e in La grande scommessa, McKay 2015) sia con documentari (citiamo almeno Inside Job di Charles Ferguson, premio Oscar 2011).

Ai tempi del nazionalista tedesco Weber, per il quale «la maggiore tentazione al gioco e le conseguenti perdite per il pubblico domestico devono essere sostenute come parte dei costi di guerra nella lotta delle nazioni per il dominio economico» (ivi, p. 133), una politica economica per una Borsa forte ha il dovere di garantire che «gli idealisti apostoli della pace economica non disarmino la propria nazione» (ivi, p. 136). Ma oggi che il tramonto dello stato-nazione è funzionale al finanzcapitalismo apolide degli onnipotenti mercati, vogliamo davvero rinnovare la fiducia al neoliberismo? “Preferirei di no” risponderebbe Bartleby lo scrivano, il protagonista del racconto di Herman Melville (datato 1853) di cui anche esegeti del calibro di Agamben e Deleuze non hanno messo a fuoco l’illuminante sottotitolo Una storia di Wall Street. Alle volte i sottotitoli valgono più dei titoli.

Riferimenti bibliografici
M. Weber, La Borsa, Marietti 1820, Bologna 2020.
E. Zola, Il denaro, Sellerio, Palermo 2017.

Max Weber, La borsa, Marietti 1820, Bologna 2020.

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