Un festival è ciò che passa attraverso i film, tra un film e l’altro, da un film all’altro. Che riguarda immagini e discorsi, sentimenti ed idee, molto spesso ideologie, che circolano e ci restituiscono attraverso i film il legame indissolubile tra cinema e mondo, tra il cinema e gli stati del mondo.

E ciò che emerge dai film visti alla 79^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sembra essere un mondo segnato dalla presenza di un tessuto relazionale familiare sentito come rifugio emotivo e non più come perimetro simbolico. Cioè non più come deposito di valori, che quando emerge, soprattutto nei film italiani ambientati tra anni sessanta e settanta (Il signore delle formiche di Amelio e L’immensità di Crialese) diventa il mostruoso di chi condanna all’ospedale psichiatrico il non conforme.

Un familiare che si manifesta soprattutto sotto il segno del materno, della sua ricerca e della sua scomparsa: da Monica di Pallaoro a Les enfants des autres di Rebecca Zlotowski, da The Eternal Daughter di Joanna Hogga a Saint Omer di Alice Diop. I nodi complessi ed emotivamente inspiegabili della maternità che nel film più bello del festival, quello della Diop, necessitano addirittura di un dibattimento processuale per poter essere compresi.

Ma c’è anche un familiare, allargato ed eccentricamente caotico, che si manifesta sotto il segno della morte e della sua paura, come in White Noise di Baumbach, in Bardo, falsa cronica de unas cuantas verdades di Iñárritu e in The Whale di Aronofsky.

C’è la famiglia restituita in una maniera più felice, nonostante le vicende drammatiche in cui è coinvolta, perché contaminata di commedia, di Argentina, 1985 di Santiago Mitre, o quella che deve rispondere ad un trauma e lo fa nel modo più incerto ma allo stesso tempo aperto di Love Life di Fukada (che ha il più bel finale visto al festival); o ancora c’è il “due” matrimoniale, doloroso e gioioso allo stesso tempo, che ammiriamo nei monologhi di Sofia Tolstaja in Un couple di Wiseman; e c’è una declinazione tragicomica del familiare anche nell’amicizia simbiotica o in quella tra fratello e sorella di The Banshees of Inisherin di McDonagh.

In tutto questo, se l’isolamento dell’individuo sembra essere scomparso, questo familiare come concrezione emotiva, anche quando dolorosa, sembra emergere come mero tentativo di rassicurazione. Che sposa molto spesso un politically correct poco coraggioso, nascondendo un reale inquietante sotto una forma che lavora su immaginari e modi prevedibili: anche quando racconta situazioni sociali più ampie, come in Athena di Gavras, o costruisce documentari di denuncia come All the Beauty and the Bloodshed di Poitras.

A questo c’è una sola eccezione, Bones and All di Guadagnino. Se non il più bello, sicuramente il film più estremo del festival. Che osa scalfire rappresentazioni e immaginari consolidati, facendo emergere un reale cannibalico che destruttura ogni scontato e tranquillizzante perimetro ideologico.

Ciò che sembra mancare ai film visti alla Mostra è la capacità di anticipare e immaginare con radicalità e coraggio il futuro della società e del cinema stesso, così come di scavare archeologicamente nel passato. Troppo preoccupati di stare dalla parte giusta, molti dei film visti (con significative eccezioni, come, fuori concorso, il Master Gardener di Schrader), sono sembrati soprattutto preoccupati di vincolare a sé lo spettatore lavorando sui suoi sensi di colpa rispetto ai temi proposti e sui suoi cliché rispetto alle forme rappresentative usate.

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