Siamo noi a guardare le immagini oppure sono le immagini che guardano noi? E che cosa ci dicono le immagini nel loro silenzioso scrutarci? Che cosa sanno le immagini? Perché esse si schiudono venendo a noi? Qual è la loro verità celata (coelata, cioè racchiusa nel proprio cielo che le vela e le lascia intravedere in trasparenza)? Questi interrogativi ricorrono più volte nel corso di quello strano, ammaliante, libro-dialogo che è L’ultima immagine (Rizzoli 2021). Un dialogo a distanza spaziale e temporale tra James Hillman e Silvia Ronchey. Uno psicoanalista “postjunghiano”, inventore della psicologia archetipica, e una bizantinista si incontrano come in un “montaggio parallelo” (su cui è costruita tutta la struttura del libro) in due spazi e tempi diversi. A Ravenna nel 2008, percorrendo i luoghi basilicali, i battisteri, i mausolei, cosparsi di abbaglianti mosaici dove sotto altre vesti traspare la “sopravvivenza” degli antichi dei, e a Thompson, (Connecticut) nel 2011, dove Hillman ritorna malato (morirà nello stesso anno) e dove vuole continuare sul letto di morte, socraticamente e stoicamente, il dialogo intorno alle suggestioni che l’idea di immagine gli suscitava, e su cui voleva che si soffermasse la sua riflessione “estrema”.

Chi è stato Hillman? Uno dei più arditi continuatori della psicologia analitica junghiana, certo, ma anche colui che ha spinto agli estremi confini il pensiero analitico di Jung verso un territorio immaginale costellato di archetipi e ci ha restituito una radicale interpretazione del sintomo psichico e del suo manifestarsi come eziologia del malessere: la malattia è un dio che vuole parlarci e a cui non sappiamo più prestare ascolto nel suo mitologema, nella prerogativa della sua storia mitica. Se Hillman parte dall’affermazione junghiana che gli dei antichi sono diventati malattie, una volta spinti nell’ombra del rimosso dalla cristallizzazione della luce trascendente introdotta con i monoteismi, allora è da questa “patologizzazione” del dio che bisogna partire per una cura di sé che sia anche una cura del mondo, dell’anima mundi. In ciò risiede la sua prassi analitica che egli racchiude nell’allocuzione di memoria rilkiana, “Fare Anima”. Per far questo è necessario accedere tanto alla meraviglia quanto al terrifico che insiste nell’ambivalenza di ogni dio inteso come archetipo. Si possono passare in rassegna alcuni di questi plessi della cosiddetta “psicologia archetipale” hillmaniana: la Grande Madre protettiva e accogliente eppure insieme fagocitante e divorante; il Puer Aeternus continuamente creativo ma insieme maniacalmente compulsivo; il Senex come vecchio saggio ma insieme rigidamente chiuso in una malinconia saturnina; Dioniso che induce il giubilo liberatorio e insieme la furia scatenante e annientante dello sparagmos sacrificale e sadomasochistico; Pan che si rivela nel fremito della natura e insieme suscita l’attacco di panico nell’ora meridiana.

Per Hillman il lavoro analitico non è tanto un processo di guarigione quanto di riconoscimento, cioè di “visione in trasparenza”, di attivazione immaginativa. Allora diventa questione di immagine, di lavoro sulla e dell’immagine, ponendosi faccia a faccia con l’imago come rivelazione tanto della bellezza quanto del tremendum che vi è connesso. La Ravenna del V secolo, quella degli ultimi bagliori del mondo antico, travolto dalla caduta dell’Impero, ed estremo lembo di Bisanzio, dell’Impero di Oriente, in quell’Occidente che soccombe alle invasioni barbariche, è anche il luogo di una epifania straordinaria delle “ultime immagini”, di un ciclo di mosaici che si collocano sulla soglia di quella “guerra visuale” che caratterizza l’iconomachia, tra iconofilia e iconoclastia come polarità irriducibili, e che avrà luogo da lì a tre secoli. Ciò che colpisce Hillman dei mosaici ravennati è il loro statuto di visione intrapsichica. Non a caso è a Ravenna che Jung ebbe una visione significativa: vide quattro grandi mosaici di incomparabile bellezza, nei minimi dettagli (come un fonte battesimale segno di morte e rinascita), ma poi quando ne cercò le foto da Alinari non le trovò. Quei mosaici semplicemente non esistevano, li aveva potentemente immaginati. Nella potenza di tale visione la prima cosa che colpì Jung fu una soffusa e tenue luce azzurrina. Più avanti nel libro Hillman rievoca questo “azzurro” archetipico con una propria visione avvenuta a Isfahan, dopo la visita a una moschea, durante uno stato intermedio tra veglia e sonno: «Ero sdraiato sulla schiena e ho visto sopra di me una volta circolare rivestita come le cupole di Isfahan al loro interno. Era quindi di quello stesso straordinario azzurro, un azzurro tenue, ceruleo. E mi si spalancava sopra […] Eccola! mi sono detto. Ecco la mia visione. È ciò che ho sentito. Era la Volta Azzurra» (Hillman, Ronchey 2021, p. 172).

Emerge dal dialogo quello che viene a mancare oggi: la funzione di rivelazione dell’immagine, il suo essere appunto ultimativa. In un discorso intorno alle icone, ad esempio, risalta la considerazione che nel porsi di fronte ad esse bisogna in qualche modo suscitare un altro occhio per vederle nella loro verità, perché in esse l’immagine si ferma, diventa esperienza di ek-stasis, si sottrae al movimento per far sì che noi, che apparentemente le vediamo, veniamo in realtà visti dall’immagine. La vera immagine è sospensione. Lo sguardo oscuro dell’icona si impadronisce di noi lasciando trasparire l’immagine sottesa, che invisibilmente ci guarda mentre noi guardiamo l’immagine visibile. «Credo quindi che la vera immagine sia quella della forma interiore, della forma psichica, della forma dell’anima. Una forma che tenendo insieme le varie visibilità dà profondità al visibile, lo fa diventare, visibilità dell’anima. Ed è qualcosa che abbiamo perso. Abbiamo confuso l’immagine con il visibile» (ivi, p. 96).

Eppure il tragitto che secondo Hillman l’immagine compie è una sorta di inversione che si rivela in ciò che l’immaginario alchemico (più volte richiamato nel libro) chiama Rotatio, un movimento in cui ciò che è superiore ruotando si trova ad essere inferiore e viceversa. È il moto dell’anima, che si muove in cerchio, mentre la mente segue un percorso rettilineo. L’immagine vibra rovesciandosi e si dispiega ab extra ad intra. Un movimento rotatorio che ci appare quando ci poniamo la domanda se «possiamo spingerci più in là e dire che c’è sempre una specie di rovesciamento copernicano quando siamo al cospetto di un’immagine? L’immagine è fuori di noi ma, come direbbe Plotino, si dispiega interiormente» (ivi, p. 164).

Verso la fine del libro Hillman e Ronchey richiamano una visione emblematica, quella dell’astronauta, che ruota nella volta cosmica. Improvvisamente la Terra, pianeta Azzurro, globo blu, viene vista come cosmo, come immagine entro la Volta Azzurra, entro quella imago rotunda che ricorre nei mosaici ravennati insieme alla Grande Immagine Verde del mondo naturale, davanti alla quale si manifesta e si staglia l’istanza immaginale profonda che riguarda l’ambiente, inscrivendovi ciò che lo Hillman chiama «Codice dell’anima». La Ronchey sottolinea in tal senso come Hillman:

Voleva attivare in noi un altro tipo di codice, più profondo: quello che si trasmette alla psiche grazie al lavoro sull’immagine. All’emergenza ecologica vedeva associata una distruzione di anima (e di immagine) che non poteva non trasmettersi alla psiche collettiva. L’accelerazione dei cambiamenti climatici, i conseguenti disastri ambientali e la crescente sofferenza di milioni di esseri viventi, l’estinzione di intere specie di animali e vegetali, fanno ammalare sempre più gravemente, insieme al mondo, la sua anima: l’anima mundi, di cui l’anima umana è parte. Ed è alla patologia dell’anima del mondo che si è sempre rivolta la cura di Hillman (ivi, p. 15).

Allora la meditazione sull’immagine diventa nel libro anche un discernimento, una decantazione, una decostruzione purificante rispetto all’intossicazione che l’ipertrofia indiscernibile delle immagini falsificanti, di cui il pianeta è pervaso, sta mettendo in atto impedendoci che possa scaturire e prorompere una visione capace di restituire anima al mondo. C’è una Via Regia (come si dice in alchimia) per far ciò: l’atto dell’immaginare, che è Fare Anima.

Riferimenti bibliografici
J. Hillman, Psicologia alchemica, Adelphi, Milano 2013.
J.Hillman, S.Ronchey, L’anima del mondo, Rizzoli, Milano 2001.

James Hillman, Silvia Ronchey, L’ultima immagine, Rizzoli, Milano 2021.

Share