“L’illegalità era il mio mestiere. Uscivo spinto da qualcosa di furioso che mi soffiava alle spalle, affamato di prede e violento come un animale che non ha abbastanza spazio”. È con queste parole che Remo Guerra ne L’odore della notte (Caligari, 1998) inizia a raccontare la sua storia, mentre viene ripreso durante un’azione criminale insieme ai suoi complici, intento ad inserire dei proiettili in un fucile. È lui stesso, con un voice over costante, a descrivere ogni evento e ogni personaggio, consapevole di avere a sua disposizione un pubblico pronto, finalmente, ad ascoltarlo.
Roma, novembre 1979. Quella che Claudio Caligari racconta è la vera storia di Agostino Panetta, detto Remo, narrata in prima persona dallo stesso criminale nel romanzo Le notti di Arancia Meccanica di Dido Sacchettoni (1986). Remo, poliziotto, è nato nelle borgate romane ed è costretto a prestare servizio al Nord. Incapace di accettare la sottomissione al potere altrui, l’uomo inizia a compiere furti durante il servizio, per farsi poi allontanare dalle forze dell’ordine per insubordinazione. Tornato nella sua città natale, dedicherà la maggior parte delle sue notti a compiere rapine insieme ai suoi compagni.
L’azione si svolge in un’Italia perseguitata dal fantasma di Aldo Moro, ancora immersa nel terrorismo e nello stragismo: anni di violenza generalizzata e dilagante, penetrata a forza nelle case degli italiani attraverso televisioni e giornali, i cui titoli più di una volta vengono mostrati, contribuendo a sottolineare lo scorrimento costante di sangue. Non è un caso che Remo Guerra riprenda le movenze di Trevis Bickle, protagonista di Taxi Driver (Scorsese, 1976) e a sua volta simulacro della nevrosi causata da una società incapace di ascoltare il dolore di chi non riesce più a sentirsi a casa in America dopo un’esperienza traumatica come il ritorno dal Vietnam. Entrambi si muovono nella notte nascosti dalle ombre, in costante movimento (il primo su auto rubate, il secondo sul suo taxi). La pistola diventa per i due uomini un prolungamento del corpo, un mezzo di affermazione della propria forza e virilità, con cui dormono e che puntano alla loro immagine allo specchio, andando a creare una sovrapposizione inscindibile tra la brutalità e loro stessi. A differenza di Roberto e Maurizio, suoi complici, che accettano di uscire la notte per mantenere la propria famiglia o per poter avere del denaro da sperperare in divertimenti, Remo (come anche un altro dei rapinatori, il Rozzo) non desidera realmente i soldi che guadagna. Le “uscite” notturne sono per lui l’unica vendetta contro una società che, consapevolmente o meno, schiaccia chi è ultimo, negandogli ogni opportunità. “Per me era diverso; io ero in guerra”, afferma, esplicitando il conflitto che lo porta ad agire.
Le vittime delle aggressioni infatti sono sempre uomini e donne di classi sociali alte, ricchi di famiglia o con importanti posizioni lavorative, così sicuri del loro status da non preoccuparsi delle possibili conseguenze nell’ostentare il loro benessere: coperti di gioielli, avvolti in pellicce, rientrano nelle loro case dopo notti di divertimento. Protetti dalla luce dei lampioni, sembrano divinità mai sfiorate dalla durezza della realtà. Quando però li sommerge l’oscurità, entrano nel regno animale di Remo, in cui i rapinatori non si limitano a strappare collane e bracciali per poi scappare via: ogni momento può essere sfruttato come personale rivalsa. La violenza si impadronisce delle azioni, diventando insostenibile attraverso una regia, costruita su piani sequenza e primi piani, che impedisce allo sguardo di allontanarsi dalla brutalità. Il vero obiettivo sembra diventare quello di sfregiare le vittime, coprirle di calci e pugni, spaventarle e umiliarle puntando loro la pistola alla testa: è impossibile andare via da un colpo senza dover lavar via il sangue dalle mani e dal bottino. È così che avviene un «sovvertimento dei ruoli di potere, il puro piacere di esercitare violenza o di strappare i “fondi” per darsi alla bella vita o fingere di averne una, in una sorta di emulazione speculare di quelle esistenze così distanti da loro» (Auteri, 2016).
Nel momento in cui Remo cerca la possibilità di trovare una propria tranquillità, si allontana da Roma, andando al mare: viene mostrato mentre cammina con la sua fidanzata, Michela, in spiaggia, avvolto da una luce abbagliante che dona all’ambiente un aspetto quasi onirico, in evidente contrapposizione rispetto alla quotidianità immersa nelle notti e nell’asfalto grigio della Capitale. Il suo destino però è sempre stato segnato, ogni tentativo di allontanamento o ripensamento non può portare ad un risultato. Anche quando cercherà di mantenersi aprendo un bar con Roberto, si renderà conto di non poter ripagare i debiti accumulati, venendo quindi respinto ancora una volta da quel mondo conforme alla legge che sembra essere per lui in tutti i modi inaccessibile.
Le vicende arrivano fino al 1983: la banda di Remo, dopo un primo periodo di formazione per le strade, inizia ad aggredire le vittime nei loro stessi appartamenti, diventando così “la banda delle ville”. La regia di Caligari indugia sugli interni opulenti, dorati, puliti, quasi gelidi nel loro eccesso; quella rappresentata sullo schermo non è più l’invidiabile alta società romana degli anni sessanta, ma la tristezza dei ricchi decaduti, svuotati della loro gloria. Privati dei loro diamanti (pietre così belle da sfigurare nelle mani dei criminali, come ammettono loro stessi) e dei loro soldi, sono mostrati nella loro fragile solitudine, mentre entrando nelle loro case e aprendone le cassaforti vengono svelati segreti, perversioni, ossessioni, tradimenti.
Durante l’ultima rapina viene esplicitato il collegamento diretto con la situazione politica contemporanea agli eventi narrati: Remo, Maurizio e il Rozzo entrano in un antico palazzo, ritrovandosi nel mezzo di una cena tra un cardinale e un deputato della Repubblica, rappresentante della Democrazia Cristiana dalle fattezze molto vicine a quelle di Andreotti. “Fate questo perché non si trova lavoro?”, domanda il politico a Maurizio, convinto che basti promettere un mestiere onesto dove “timbrare il cartellino la mattina e ritirare i soldi a fine mese” per far redimere qualcuno che ha vissuto tutta la sua esistenza immerso nell’asprezza e nel disincanto verso ogni possibile cambiamento: si tratta dell’ennesima prova della cecità del potere verso chi vive nell’oscurità delle strade di Roma. È questo però l’unico colpo in cui viene commesso un errore dalla banda, che si trova inevitabilmente bloccata dalla polizia e non può sfuggire in alcun modo. Remo, rivolgendo lo sguardo alle volanti che li aspettano nel cortile, non mostra paura, disappunto, tristezza. Nei suoi occhi c’è solo accettazione, come confermerà poco dopo: “La guerra era finita. Allora avevo voglia di perdere”. Padrone del suo declino, nessuno può impedirgli di vivere a suo modo la caduta.
Nella scena conclusiva, Remo Guerra è di spalle, coperto dalla sua giacca di pelle, immerso in uno sfondo nero. All’improvviso si volta, guardando dritto in camera, sorridente: in quel ghigno è contenuta tutta la sua disillusione verso ogni possibilità di redenzione, verso ogni possibile deviazione da quel vortice di autodistruzione. Prima di andare via, spara verso lo spettatore continuando a fissarlo (come in The Great Train Robbery di Porter, film del 1903 che viene mostrato sul televisore di una delle vittime), ultimo atto di ribellione contro la falsa coscienza pulita di chi non ha mai respirato l’amarezza della notte.
Riferimenti bibliografici
A. Auteri, L’odore della notte. Il ritratto sociale dei borgatari, in F. Zanello, a cura di, Il Cinema di Claudio Caligari, Edizioni Il Foglio, Piombino 2016.
L’odore della notte. Regia: Claudio Caligari; sceneggiatura: Claudio Caligari; fotografia: Maurizio Calvesi; montaggio: Mauro Bonanni; produzione: Sorpasso Film; distribuzione: Filmauro Minerva Pictures; origine: Polonia; durata: 91′; anno: 1998.