Il più grande desiderio di Chiamaka era sempre stato quello di trovare un altro essere umano che la conoscesse veramente. Cercavo una cosa che all’epoca non sapevo ancora cosa fosse: lo splendore dell’essere veramente conosciuti.
Chimamanda Ngozi Adichie

Nel suo ultimo romanzo, L’inventario dei sogni (Dream Count, trad. it. di Giulia Boringhieri), Chimamanda Ngozi Adichie raccoglie e intreccia le voci di quattro donne africane — tre nigeriane, una guineana — che vivono negli Stati Uniti e che, in modi diversi, rincorrono quello che potremmo chiamare un “sogno di realizzazione”. Chiamaka (Chia), viaggiatrice cosmopolita e ironica; Zikora, giovane avvocata segnata da una maternità non prevista; Omelogor, ex banchiera e blogger; e Kadiatou, cameriera in un hotel di lusso, la cui vicenda tragica è ispirata, senza troppi veli, al caso Diallo/Strauss-Kahn.

Ma di quali sogni si tratta? E in che senso questo romanzo ne propone un inventario?

Il titolo prometterebbe un viaggio nei territori incerti dell’immaginazione notturna, dell’inconscio, dell’indicibile. Ma le protagoniste del romanzo sembrano inseguire desideri molto concreti: amore romantico, maternità, successo, stabilità economica, riconoscimento sociale. Desideri legittimi, ma anche prevedibili, normativi. Sono questi i “sogni” che il romanzo inventaria? Adichie stessa sembra chiederselo, per bocca di Chiamaka: «I sogni hanno uno scopo? Era realistico fantasticare su quello che volevo?» (Adichie 2025, p. 99). La risposta resta nel non detto.

Da Freud in poi, sappiamo che il sogno può essere un appagamento mascherato di un desiderio e insieme elaborazione inconscia: ciò che conta non è l’oggetto del desiderio, ma la sua deformazione, il suo linguaggio obliquo e frammentario. Nel romanzo, invece, il sogno è tradotto senza residui nel programma di vita delle protagoniste, dimidiato a sceneggiatura consapevole. In questo modo, L’inventario dei sogni sembra ridurre l’immaginazione alla pianificazione, la speranza all’aspettativa.

Questo desiderio al quale le protagoniste sembrano voler restare fedeli è il desiderio di essere “veramente conosciute”. Lo dichiara Chiamaka all’inizio, lo ripetono a modo loro le altre, tutte in cerca di “qualcuno cui mostrare di aver bisogno l’uno dell’altra senza perdere sé stessi”. Per inverarlo, si è disposti anche a ignorare la sofferenza acuta che si prova a “voler amare un’amabile persona che non si ama”, magari accorgendosi di “non volere al fondo ciò che si vuole volere”.

Questo desiderio di riconoscimento a tutti i costi si rivela spesso stucchevole nella sua insistenza e piuttosto scontato e classista nella sua declinazione: Chiamaka cerca di essere apprezzata da uomini belli, ricchi, cosmopoliti, e in fondo fatui. E quando queste relazioni falliscono, non resta che il rimpianto o la stizza per venir lasciati per sciocchezze — gesti minimi, come aver ordinato a Parigi una mimosa al momento sbagliato, anziché una Perrier o un bicchiere di rosso.

Il dramma, qui, non è la perdita, ma la pretesa di trasparenza totale, l’illusione di poter essere del tutto conosciuti, come se l’amore fosse lettura perfetta dell’altro, simbiosi senza residui. Quando invece l’amore è anche — e soprattutto — relazione tra sconosciuti, tra alterità che non si risolvono. Lo sapeva bene Bataille, lo sa chiunque ami davvero: ciò che ci lega è anche ciò che ci sfugge. L’idea di essere un “libro aperto” per l’altro, come fine ultimo della relazione, non solo è ingenua, ma anche invasiva.

Tra le quattro, la figura di Kadiatou è la più drammatica: Adichie ne racconta con crudezza la storia, attingendo al caso della cameriera abusata qualche anno fa da Strauss-Kahn in un grande albergo di New York. Due volte vittima di violenza sessuale, sopravvive in qualche modo al trauma della prima, ma rischia di non superare l’ultima, subìta da un super potente, portandone dentro il marchio indelebile: «La crudele promessa della perdita non l’abbandonò mai» (ivi, p. 262). La cosa orribile è che il trauma, ripetuto, diviene ingestibile per Kadiatou quando con le proprie categorie (di donna nera africana, comunque sottoposta) non riesce proprio a farsi – per così dire – una ragione dell’accaduto. Com’è possibile che un uomo bianco, ricco e influente al punto da poter avere tutto e facilmente, abbia scelto di praticare violenza a lei, ormai quasi invisibile perfino a sé stessa?

La questione qui, da letteraria, si fa anche etica: trasformando la sofferenza estrema in cardine narrativo si rischia di “usare” la vittima, facendole portare sulle spalle il peso simbolico dell’intero romanzo. Quando descritta, la violenza sessuale può fungere da detonatore di linguaggio o dispositivo di denuncia; ma se la scrittura non le apre spazio di metamorfosi, rischia di ridurla a marchio tragico, solo funzionale alla trama.

Tra le sue molte ambizioni, il romanzo vuol forse trasmettere anche il senso dello scacco dell’integrazione e l’universalismo mancato di una generazione di donne non più africane, ma neppure del tutto americane. Qui si sarebbe potuto dire di più: ad esempio, mostrando come la frattura identitaria incida nei rapporti d’amore o di amicizia, o come la lingua madre e quella di adozione convivano in conflitto.

Kadiatou è l’unica non nigeriana tra le protagoniste, ma la sua identità africana — così come quella delle altre — resta uno sfondo, piuttosto che una realtà interrogata. Le differenze tribali emergono qua e là come note a piè di pagina (gli Igbo non fanno questo, gli Yoruba sì…), senza diventare motore di tensione. Anche le figure politiche evocate, come il famoso e discusso presidente guineano Sékou Touré, restano citazioni senza corpo: nomi che avrebbero potuto incarnare un nodo storico-culturale e invece passano come silhouette.

Il romanzo si svolge durante l’ultima pandemia, e alcuni passaggi evocano con delicatezza il lutto, la sospensione, la solitudine: “La tristezza è un frutto appeso a un ramo più basso di quello della felicità”, riflette tra sé e sé Omelogor. Neppure il Covid riesce però a far deflagrare le storie, restandone una cornice, e anche la pandemia appare un’occasione mancata per dei personaggi in teoria protesi a far centro su sé stessi. Magari, una scena in cui la malattia o il lockdown avessero trasformato davvero la traiettoria di una delle protagoniste — costringendola, ad esempio, a un incontro imprevisto o a un rovesciamento di priorità — avrebbe potuto restituire alla pandemia il ruolo di evento e non solo di sfondo. Invece, nessun vero sconvolgimento, nessuna messa in discussione radicale delle narrazioni di sé. I personaggi, pur parlandosi via Zoom, ricordando e chiudendosi nel loro guscio, non si aprono all’imprevisto dell’evento, al “sogno” come irruzione dell’inspiegabile, o del non senso. Omelogor, in uno dei pochi passaggi perturbanti, suggerisce che si muore quando si diventa «l’io che sogna» (ivi, p. 363). Ma è un lampo isolato, che non trova risonanza.

Nel romanzo si compone anche una lista, quasi un inventario parallelo, di tópoi propri della condizione femminile, che scorre sotterraneamente tra le cinquecento e più pagine: aborto, isterectomia, mutilazione genitale, gravidanza non desiderata, partner assenti, relazioni parentali difficili. Come già osservava The Guardian quando il romanzo uscì, il libro si presenta anche come un collage della identità femminile violata. Ma l’ambizione enciclopedica si risolve in un rischio: quello di sommare, più che scavare. Nessuna delle quattro storie si distacca veramente dalle altre. Tutte condividono un esito amaro: lo scacco. Non perché i sogni delle protagoniste non si avverano, ma perché non sono che desideri mal posti: mal formulati, proiettati su figure improbabili, oppure consumati senza reale trasformazione.

L’inventario dei sogni è scritto con l’eleganza che ci si aspetta da Adichie: frasi nitide, ritmo calibrato, dialoghi ben costruiti, in grado anche di rendere la frivolezza di una nuova classe abbiente di origini africane ‒ razza padrona ad Abuja e Lagos come nel Maryland e Washington. Ma dietro questa finezza formale sembra nascondersi un difetto strutturale e concettuale: la confusione tra ciò che si desidera e ciò che si sogna. Sognare, nella sua accezione psicoanalitica e poetica, è lasciare spazio a ciò che eccede la coscienza; desiderare, qui, è rincorrere il noto in forme più ambiziose. In questo, il romanzo fallisce il bersaglio che si è dato: più che un inventario dei sogni è un catalogo di volizioni, commoventi nel caso dell’unica donna vera, la guineiana stuprata dal presidente del Fondo monetario internazionale, e altrimenti frustranti, mai davvero liberatorie.

«Nessuno vive la vita che sogna» (ivi, p. 103): vero. Il romanzo sarebbe stato più riuscito se avesse contribuito a mostrare che quest’affermazione non è una minaccia, ma una promessa.

Chimamanda Ngozi Adichie, L’inventario dei sogni, Einaudi, Torino, 2025.

*Immagine: School of Beauty, School of Culture, 2012, Kerry James Marshall, Birmingham Museum of Art.

Tags     black women, identità, sogno
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