Alla fine è venuto lo stesso, anche se non facevamo che dirci che non lo volevamo. È questo che ci ha detto il virus con la sua insopportabile e pericolosa presenza. Perché il virus non è che l’ultimo – allo stesso tempo il meno desiderato ma anche l’ospite che da subito abbiamo riconosciuto come irrinunciabile – degli intrusi che premono sempre più numerosi ai confini del nostro mondo, quello immunizzato, quello della paura per il contatto con l’estraneo e la contaminazione. Era di questo che parlava il libro profetico di Jean-Luc Nancy (prima edizione 2000, nuova edizione arricchita da un post-scriptum dello stesso Nancy del 2017) L’intruso (Cronopio, a cura di Valeria Piazza e con una postfazione di Antonella Moscati, 2024). Nancy racconta in poche potenti pagine il “suo“ – ma il problema, in fondo, è tutto in questo possessivo, in che senso l’intruso può appartenere a qualcuno, compreso a sé stesso? – cuore, un cuore trapiantato, e che è vissuto con il filosofo fino alla sua morte nel 2021. Il cuore di un altro, il virus, il granchio blu, l’ailanto che “colonizza“ le scarpate ferroviarie, il migrante che attraversa il Mediterraneo, lo sciacallo in Friuli sono tutti intrusi che non possiamo non finire per ospitare dentro di noi, a casa “nostra“. Perché l’intruso, comunque, arriverà:

L’intruso si introduce di forza, con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più nemmeno lo straniero. Escludere quindi ogni intrusione dalla venuta dello straniero non è logicamente accettabile, né eticamente ammissibile (ivi, p. 11).

Prima o poi lo straniero arriva, non smette di arrivare, perché in realtà è sempre arrivato. L’intruso è allora l’agente esterno che non può non arrivare a disturbare la nostra intimità, un’intimità che in fondo non significa nient’altro che il sogno (l’incubo?) di un mondo affatto controllabile, impermeabilmente chiuso all’altro, allo straniero che parla una lingua che non conosciamo e che ci spaventa: e così «continua a venire e la sua venuta resta in qualche modo un’intrusione. Rimane cioè senza diritto, senza familiarità e senza consuetudine: un fastidio e un disordine nell’intimità» (ibidem).

Ma perché l’intruso non smette di arrivare, e perché, soprattutto, in fondo non possiamo vivere senza la speranza nascosta – così nascosta che non riusciamo nemmeno a confessarcela – che prima o poi arrivi a infastidire la nostra intimità? Perché senza l’intruso, cioè senza il disturbo che spezza l’ordine asfittico dell’equilibrio, la vita appassisce e infine muore (come ci raccontano nel numero di agosto 2024 delle Scienze Roberto Benzi, Giorgio Parisi e Angelo Vulpiani, “Quando il rumore non disturba”). Senza il cuore dell’estranea Nancy sarebbe probabilmente morto nel 1992, quindi è vissuto – con tutte le complicazioni del caso, perché avere nel corpo il cuore di un’altra persona significa una lotta costante contro, appunto, l’intruso – per quasi altri trenta anni. Vale lo stesso per gli animali esotici che prendono il posto di quelli “indigeni“ (una nozione che non ha senso, ché tutti siamo stati, o prima o poi saremo, degli intrusi) e quindi tengono in vita un ambiente destinato altrimenti ad atrofizzarsi, ma vale anche per lo stesso virus che ci cambia da dentro, e ci ha comunque già cambiato (e per cambiarci spesso ci uccide, perché l’intruso è pericoloso).

Ma se l’intruso non smette di arrivare, se non possiamo vivere senza il disturbo dell’intruso, come possiamo allora contrapporlo allo spazio intimo, familiare, lo spazio che sarebbe appunto del tutto libero dal rischio di incontrarlo? «In questa storia» scrive Nancy, «tutto mi verrà da altrove e da fuori – così come il mio cuore e il mio corpo mi sono venuti da altrove, sono un altrove “in“ me» (ivi, p. 21). Ma se l’altrove è già da sempre dentro, come potremo allora più distinguere – Homo sapiens non è altro che questa disperata distinzione – il fuori dal dentro, l’esterno dall’interno? È questa la scoperta che accompagna l’arrivo insopportabile dell’intruso, che «l’estraneità infatti doveva venire dall’esterno solo perché era sorta prima all’interno» (ivi, p. 16). L’intruso c’era già prima ancora che arrivasse, perché altrimenti non avremmo potuto nemmeno accoglierlo. Allo stesso tempo l’intruso, nonostante siamo tutti degli intrusi, è inassimilabile, cioè non smette mai di essere fastidioso e appunto intrusivo.

«È questo che si tratta di pensare e quindi di praticare: altrimenti l’estraneità dello straniero viene riassorbita prima ancora che lui stesso abbia varcato la soglia; e non è più in questione. Accogliere lo straniero dev’essere anche provare la sua intrusione. Anche se per lo più non lo si vuole ammettere. […] Ma lo straniero insiste e fa intrusione. È proprio questo che non è facile accettare e neppure forse concepire…» (ivi, p. 12). Quanto ci chiede Nancy è l’esercizio più difficile che ci sia, accettare lo straniero non malgrado sia un intruso, ma proprio perché è un intruso. È la sua insopportabile intrusività che dobbiamo accogliere, per imparare a conviverci (è evidente che l’intruso di cui scrive Nancy è anche, e forse soprattutto, l’inconscio; anche se in realtà per l’inconscio lo stesso Io rappresenta un intruso). Ecco perché, dal momento che è impossibile sbarazzarsi definitivamente dell’intruso, non ci resta che fare i conti – conti che nessuna contabilità potrà mai far tornare in pareggio – con la sua irriducibile intrusività:

L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso. Un rigetto sarebbe molto forte, bisogna quindi farmi resistere alle difese dell’organismo umano (e lo si fa con un’immunoglobulina estratta dal coniglio e destinata a quest’uso “antiumano”, com’è specificato nella sua avvertenza e di cui mi ricordo gli effetti sorprendenti, i tremiti quasi convulsi). Ma divenire estraneo a me stesso non mi avvicina all’intruso. Sembra che questa sia una legge generale dell’intrusione: non vi è mai un’intrusione unica: non appena se ne produce una, si moltiplica e si identifica nelle sue rinnovate differenze interne.
Così, conoscerò più volte lo zostervirus o il citomegalovirus, estranei assopiti in me da sempre e improvvisamente risvegliati contro di me dalla necessaria immunodepressione (ivi, p. 29).

Che cos’è, in effetti, la terapia immunodepressiva – quella che difende l’intruso trapiantato, nel caso di Nancy il cuore di una giovane donna che è stato introdotto nel petto del filosofo – dalla violenta aggressione da parte del sistema immunitario del corpo che ha subito il trapianto? Bisogna imparare a sopportare l’intrusione, perché a volte l’intruso porta vita, e per farlo occorre imparare a, come si dice con una formula più potente di quanto sembri, abbassare (e non, alzare, come invece vuole il luogo comune immunitario e salutista) le difese immunitarie. Occorre aprire porte e finestre di casa “nostra”, non chiuderle con porte blindate e doppi vetri. Certo, bisogna aprirle fino a un certo punto, perché se le si spalanca non ci sarà più nessuna casa da difendere, e nessun corpo trapiantato, perché

lo straniero molteplice che fa intrusione nella mia vita […] non è altro che la morte, o piuttosto la vita/la morte: una sospensione del continuum dell’essere, una scansione con cui “io“ non ha/non ho gran che da fare. La ribellione e l’accettazione sono ugualmente estranee alla situazione. Ma qui non vi è nulla che non sia estraneo. Il mezzo di sopravvivenza è lui stesso, lui per primo, d’una estraneità completa (ivi, p. 24).

È il prezzo, terribile, che occorre pagare per sopravvivere, non solo sopportare la presenza insopportabile e inquietante – una presenza estranea a cui non riusciamo mai ad abituarci – dell’intruso, ma per sopportare la scoperta ancora più insopportabile che, attraverso l’intruso, diventiamo infine estranei a noi stessi, cioè diventiamo ciò che non siamo, e che ciò che non siamo è invece proprio ciò che siamo:

Che strano io! La questione non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi il cuore, ma che questa apertura non può essere richiusa. […] Io sono aperto chiuso. C’è in me un’apertura attraverso la quale passa un flusso incessante di estraneità. […] Sono dunque io stesso che divengo il mio intruso, in tutti questi modi che si accumulano e si oppongono (ivi, p. 31). 

Si comprende infine perché il nostro sia il tempo dell’intruso e dell’intrusione. Perché non possiamo più credere alla possibilità di tenere lontano, là fuori oltre i confini del familiare e dell’intimo, la molteplicità di intrusi che premono per entrare da ogni parte. Perché l’intruso è già entrato, è sempre entrato, non è mai esistito un tempo senza intrusioni. Ma chi sono io, allora, se non posso pensarmi se non in rapporto all’alterità intrusiva dell’estraneo? È mai esistita un’entità che abbia potuto essere soltanto sé stessa? Un’entità chiusa in sé, nella propria presuntuosa e autosufficiente identità? «L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in sé stesso, inquietante spinta dello strano, conatus di un’infinità escrescente» (ivi, p. 40).

Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio Edizioni, Napoli 2024.

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