Nel dicembre scorso, è stato pubblicato il fascicolo numero 9 della rivista K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, dedicato alla Rivoluzione senza condizione dell’artista e pedagogo Kazimir Malevič, ulteriore figura concettuale per la rivista che, ormai da anni, indaga la questione del potere destituente: una maniera di schivare qualsiasi forma di potere contemporaneo collocandosi oltre la resistenza, evitando, cioè, il rischio di aderire «al concetto di resistenza come forma di contropotere che ambisce a prendere il posto del potere» (Amato, Salza 2014). In particolare, sono due le opere di Malevič che la rivista decide di consacrare come segnavia della propria impresa: il celebre Quadrato nero su fondo bianco del 1915, profezia di una rivoluzione a venire, dove il nero è nuova luminosità che inghiottisce tutti i colori “del passato”, e il breve testo del 1921, in Italia conosciuto con il titolo L’inattività come verità effettiva dell’uomo, tradotto e curato da Maurizio Costantino e pubblicato da Asterios nel 2012. Ma sullo strano caso editoriale di quel testo, che è «una traduzione dal francese, a sua volta traduzione dall’inglese, e prima dal russo» (Malevič 2012, p. 9), sui problemi teorici che una traduzione di traduzione comporta (Amato 2022, p. 222), la rivista si è a lungo interrogata, iniziando a immaginare una nuova traduzione, questa volta direttamente dal russo, del cruciale testo di Malevič.

La traduzione, direttamente dal russo per la prima volta in Italia, intitolata L’inazione come verità effettiva dell’umanità, condotta da Antonella Cristiani, è adesso pubblicata da Cronopio, ed è accompagnata da due brevi ma densi testi: il primo, di Marco Tabacchini, Malevič l’intempestivo, e il secondo, di Boris Groys, intitolato Diventare rivoluzionari: su Kazimir Malevič.

Innanzitutto, il titolo: la scelta dei termini “inazione” e “umanità”, che vanno a sostituire i precedenti “inattività” e “uomo”. Se il termine “umanità” permette forse di cogliere meglio il carattere atemporale e trans-storico, non meno che plurale, del manifesto pedagogico di Malevič, attraverso il termine “inazione” è possibile considerare la problematica cruciale intorno a cui ruota il testo, ossia l’agire inteso come lavoro, presunta caratteristica essenziale dell’umanità, in quanto atto in sé e non in quanto esplicazione durevole, ossia in quanto potenza che si esplica durevolmente in un atto. E neppure, forse, come potenza che si conserva nell’atto: se in generale nel suprematismo e in particolare nel libretto sull’Inazione risuona oggi l’inoperosità di Giorgio Agamben – il quale, in un suo saggio, riporta il titolo del libretto non come Inazione o Inattività, ma, appunto, come Inoperosità –, è evidente che persistono delle differenze tra le due modalità di rifiuto del lavoro in quanto caratteristica fondamentale dell’umanità. Già Agamben nota che:

Il singolare opuscolo di Kazimir Malevič “L’inoperosità come verità effettiva dell’uomo”, in cui, contro la tradizione che vede nel lavoro la realizzazione dell’uomo, l’inoperosità si afferma come la “più alta forma di umanità”, di cui il bianco, ultimo stadio raggiunto dal suprematismo in pittura, diventa il simbolo più appropriato. Come tutti i tentativi di pensare l’inoperosità, anche questo testo, come il suo precedente diretto, che è l’“Elogio della pigrizia” di Lafargue, in quanto definisce l’inoperosità soltanto e contrario rispetto al lavoro, resta imprigionato in una determinazione negativa del proprio oggetto. Mentre per gli antichi era il lavoro – il negotium – a essere definito in negativo rispetto alla vita contemplativa – l’otium –, i moderni sembrano incapaci di concepire la contemplazione, l’inoperosità e la festa altrimenti che come riposo o negazione del lavoro (Agamben 2017, p. 49).

Dalle parole di Agamben, sembrerebbe che l’inazione concepita da Malevič sia, come per Lafargue, ancora in contrapposizione al lavoro, ossia una resistenza a esso. Per Agamben, invece, che sviluppa il pensiero di Gilles Deleuze sull’atto di creazione come atto di resistenza, la resistenza è interna alla potenza stessa, un’impotenza che impedisce alla potenza di passare all’atto: «La resistenza agisce come una istanza critica che frena l’impulso cieco e immediato della potenza verso l’atto e, in questo modo, impedisce che essa si risolva e si esaurisca integralmente in questo» (ivi, p. 39). Per questo motivo, Agamben sostiene che la potenza è ciò che «arde senza esaurirsi» (ivi, p. 43). È possibile immaginare che l’inazione di Malevič, pensata nell’ottica della radicalità di un potere destituente, tenta di fare a meno della resistenza non solo nei confronti del lavoro e dunque del movimento della potenza verso l’atto, ma tenta di fare a meno anche della resistenza tout court, fosse anche della resistenza interna alla potenza, ossia della «resistenza interna al desiderio, di un’inoperosità interna all’operazione» (ivi, p. 52).

Molto radicalmente, non si ricade nella logica della resistenza alla propria potenza; bisogna evitare il rischio di fare della stessa impotenza una nuova potenza, ossia di fare dell’impotenza una nuova forma di resistenza – dunque, di potenza. Per questo, forse, la potenza, in Malevič, non è un “fuoco che arde senza esaurirsi”: essa è già esaurita; non deve resistere al proprio desiderio perché già non desidera più, e forse non ha mai desiderato. È l’impensabile o l’inimmaginabile della creazione per Malevič: una creazione in-umana, quasi divina o, meglio, cosmica, ma che l’umanità non attua in quanto ancorata al lavoro, quel desiderio che conduce la stessa umanità a «imitare il creatore, perfezionando e portando a compimento il mondo che lo ospita. E tuttavia, un simile tentativo costituisce, per Malevič, una vera e propria trappola discorsiva, entro la quale gli uomini si spingono a perseguire la liberazione dal lavoro proprio attraverso quello stesso lavoro da cui vorrebbero sottrarsi» (ibidem). Tanto il capitalismo quanto il socialismo, secondo Malevič, restano impigliati, pur con le dovute differenze, nella trappola del lavoro come mezzo di liberazione dell’umanità, che colonizza persino il campo dell’arte; occorre dunque criticare la produzione, il lavoro, ma anche «l’agitazione inerte» dei costruttivisti e produttivisti, che si sono posti al servizio della rivoluzione bolscevica, un «falso movimento in cui il massimo di attività e il massimo di staticità coesistono ugualmente in esso» (ivi, p. 14).

In Malevič, la creazione non si pone né come resistenza al culto del lavoro né come resistenza alla potenza nel suo movimento verso l’atto, ma come potenza già esaurita, che non arde perché è già cenere, segno della cenere a cui riduce il potere, fosse anche il potere del passato; come nota Boris Groys, è distruzione: «Il Quadrato nero è stato come uno squarcio attraverso il quale gli spiriti rivoluzionari di distruzione radicale sono potuti entrare nello spazio della cultura e ridurla in cenere» (ivi, p. 55). E tuttavia, l’opera di Malevič rimane rivoluzionaria nella misura in cui «presuppone la convinzione che la rivoluzione non sia capace di distruzione totale, che qualcosa spesso sopravviva anche alla più radicale catastrofe storica» (ivi, p. 59). È paradossale, allora, lo statuto di una creazione che si fonda sull’esaurimento di una potenza, e non di suo arresto; che si fonda, cioè, sulla rinuncia a resistere non solo a ogni ordine precedentemente costituito, ma anche alla sua possibilità di fondarne uno. È il carattere distruttivo dell’opera, artistica e pedagogica, di Malevič, che è, però, la «materia cosmica primigenia» (Groys 1992, p. 23) del suo movimento creativo, che genera dissolvendo, e che è la «madre della vita» (Malevič 2023, p. 43). L’inazione diventa allora madre non “dei vizi”, come si crede da sempre, ma “madre della perfezione”, che, però, in quanto coacervo di possibilità, non è, forse, una potenza che “arde senza esaurirsi”, ma una radicale creazione che mette al mondo dissolvendo, ossia tentando di eliminare anche le tracce stesse della sua creazione, o potenza di (non) creare. Perché, forse, quando tutto è nero, quando nulla espone una (im)potenza, l’essere lì di una rivoluzione, come accade nel Quadrato nero, diviene un intestimoniabile sforzo di distruggere anche le proprie tracce. Se ci fosse un modo per l’umanità di raggiungere quel modo di creare al di là del lavoro, ponendosi oltre la resistenza, essa potrebbe raggiungere la perfezione oltre la sua costitutiva imperfezione (ivi, p. 67).

E così, forse per la prima volta, il nome dell’inazione, della “madre dei vizi”, viene portata da me sulla piazza dell’umanità, proprio su quella piazza dove è stata marchiata di infamia. E, forse, per la prima volta, io ho toccato la fronte della sua saggezza, oppure della saggezza dell’umanità in essa, e ho cancellato lo stigma. Che si legga finalmente sulla sua fronte che l’inazione è il principio di ogni lavoro, che senza di essa non ci sarebbe lavoro. Essa era proprio l’origine e attraverso la maledizione del lavoro si instaurerà il suo nuovo paradiso. L’inazione spaventa i popoli e chi la accetta è perseguitato, e ciò accade perché nessuno l’ha intesa come verità, stigmatizzandola come “madre dei vizi” quando è la madre della vita. Il socialismo porta la liberazione ma inconsapevolmente la calunnia, senza comprendere che è proprio l’inazione che lo ha generato. E questo figlio, nella sua follia, la marchia come “madre dei vizi”. Ma non è ancora costui il figlio che cancellerà lo stigma, e quindi voglio essere io, con questo piccolo scritto, a levare lo stigma della vergogna dalla sua fronte e farne non la madre dei vizi, ma la Madre della perfezione (Malevič 2023, pp. 43-44).

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’epoca della religione capitalistica, Neri Pozza, Vicenza 2017.
P. Amato, L. Salza, Il potere destituente, in “Doppiozero”, 3 luglio 2014.
P. Amato, La rivoluzione e l’invenzione. Una nota su Malevič, in “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, 9 – 2, 2022.
P. Amato, L. Salza, a cura di, Malevič: la rivoluzione senza condizione, in ibidem.
B. Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Milano, Garzanti 1992.
K. Malevič, L’inattività come verità effettiva dell’uomo, traduzione e cura di Maurizio Costantino, Asterios, Trieste 2012.

Kazimir Malevič, L’inazione come verità effettiva dell’umanità, a cura di Antonella Cristiani, Cronopio, Napoli 2023.

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