Venezia 76 testimonia della saldatura tra temi e forme, del fatto cioè che ciò di cui si parla orienta e condiziona anche il modo in cui se ne parla. Non che ci sia sempre necessariamente un solo modo di trattare un tema, ma le opzioni spesso si riducono.

Così un tema come quello dei rapporti familiari, del legame padri/figli, madri/figlie, presente in quasi tutti i film del concorso, con poche eccezioni, e in un numero infinito di varianti (dai figli naturali a quelli adottivi, dai padri in fuga a quelli invadenti, dalle madri ossessive a quelle frustrate) predispone i film a sposare una dimensione tragico-melodrammatica, difficilmente orientabile in senso commedico quando in gioco ci sono i figli. Da La verité a Ad Astra, da Marriage Story a Joker, da Guest of Honour a No.7 Cherry Lane, da Ema a Gloria Mundi, da Babyteeth a A Herdade, questi film, in modi e con risultati diversi, si muovono in un perimetro definito da relazioni familiari complesse.

La dominanza delle storie familiari, e dei legami genitori-figli, da un lato è un segno dei tempi, perché nel legame familiare si ritrova, o ci si illude di ritrovare, sicurezze che il mondo ostile ci nega; dall’altro predispone ad uno sviluppo drammaturgico al fondo prevedibile, che permette di trattare in modo “perimetrato” sentimenti e relazioni, segnati da sensi di colpa, rivalità, invidie, aggressività. Essendo platealmente assente in tutto questo l’idea che il “dramma familiare” possa avere ad oggetto un conflitto di valori, uno scontro di visioni del mondo (abbiamo quasi sempre uno scontro prevedibile di psicologie).

In questo quadro, gli esempi migliori di tale tema pervasivo sono Ad Astra, che racconta il superamento di un complesso edipico e dunque l’accesso del soggetto alla realtà finalmente desiderata, e The Marriage Story che mostra come una coppia in crisi con figlio sia dominata dalla paura (e dal narcisismo), che cancella qualsiasi possibilità di riconoscere tra i due un qualche desiderio ancora presente, e dunque la possibilità stessa di ricominciare. A dominare e a condurre i giochi sarà semmai il desiderio degli avvocati di fare soldi.

Le eccezioni a questo sono poche ma significative. I film in concorso che non rimestano nei teatrini familiari, e che procedono senza più il perimetro stretto di un legame chiuso, riescono ad accedere alla potenza di una rappresentazione splendidamente classica del potere come in J’accuse di Polanski o a prendere un vero e proprio tema astratto, il denaro, ad oggetto di rappresentazione, in un film come The Laundromat di Soderbergh, che mescola consapevolezza nell’uso dei dispositivi di visione (la narrazione condotta rivolgendosi direttamente agli spettatori), ripresa di forme generiche classiche (la commedia politico-sociale di Lubitsch e Wilder), inserimento di immagini di repertorio (il discorso di Obama).

Ma è con La mafia non è più quella di una volta di Maresco e Martin Eden di Marcello che vediamo una notevole saldatura tra ampiezza del tema, ambizioni del film e costruzione fortemente innovativa della forma. Che si sviluppa anche attraverso operazioni radicali di montaggio, che arrivano perfino ad inserire tra le immagini di finzione o immagini grafiche – nel caso di Maresco – o immagini di archivio, nel film di Marcello. In entrambi i casi, l’ampiezza del tema (la mafia nel primo caso, la reinvenzione del Novecento a partire da un romanzo nel secondo), il suo carattere politico, in Martin Eden anche la sua universalità, spingono fino a far saltare qualsiasi possibilità di costruzione di una drammaturgia e di una messa in scena controllata. La forma si fa necessariamente sperimentale per poter corrispondere a un tema che deborda da tutte le parti. Questo in Pietro Marcello viene portato ad un livello notevole di originalità e potenza estetica.

E da qui che discende il tratto politico di questo cinema: non in una generica presenza di temi sociali (li troviamo anche in altri film), quanto nel fatto che la forma, per dare verità e intelligibilità alla grandezza del tema, sconfessa ogni verosimiglianza e si determina in modi inediti e creativi. E coraggiosi.

Questo lo vediamo anche in un film sorprendente come Atlantis (presentato in Orizzonti) dell’ucraino Valentyn Vasyanovych. Anche qui la grandezza dei temi – la guerra, il lavoro, l’inquinamento ambientale – determina uno sguardo e una forma capaci di corrispondergli in modo inedito. Ed è in questo film, e non a caso, che vediamo probabilmente una delle poche scene d’amore e di sesso dell’intero festival (sicuramente la più intensa), nella quale un soldato ucraino (attraversato da un senso di smarrimento a fine guerra) e una ragazza che accompagna nella raccolta dei corpi dei soldati ritrovano la forza della vita.

Dunque, se non necessariamente un tema è un destino (e lo sappiamo da Aristotele che le “stesse” storie possono essere raccontate in forma tragica e in forma commedica) non si può non constatare che in questo festival (e forse in generale nel cinema contemporaneo) così sembra essere: il racconto infinito di relazioni familiari senza via d’uscita, che approdano ad una forma prevedibile e codificata; a cui si contrappone il tratto inventivo, e talvolta sperimentale delle forme, quando devono saper corrispondere alla potenza di temi politici, sociali, storici, che riguardano il destino di intere comunità nello spazio e attraverso il tempo.

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