Torna in libreria uno dei testi chiave per comprendere com’è cambiata la nostra percezione delle immagini dopo l’11 settembre 2001. Mi riferisco al saggio di Pietro Montani L’immaginazione intermediale, uscito in prima edizione nel 2010 per i tipi della Laterza e ora ripubblicato da Meltemi nella collana Estetica e cultura visuali. La nuova edizione esce con un’introduzione in cui l’autore dà conto delle trasformazioni occorse nel mondo delle immagini e delle evoluzioni che ha subìto il suo pensiero nel corso di poco più di dieci anni. Dal punto di vista dell’autore, questo decennio ha significato un progressivo spostamento da un interesse preminente per il carattere di testimonianza dell’immagine contemporanea alla ricerca sul terreno delle tecnologie interattive, fino al ripensamento dell’immaginazione come una tecnologia di “scrittura estesa” che, agli albori dell’apparizione di homo sapiens, ha preparato il terreno alla maturazione della facoltà di linguaggio.
Ma anche il sottoscritto si sente particolarmente interpellato dalla ripubblicazione di un testo che ha giocato un ruolo formativo importante nella sua carriera di allora giovane studioso in erba. Non credo però che si tratti di un fattore squisitamente personale: questo libro indicava infatti a una generazione di studiosi una serie di usi e di significati dell’immagine prima sconosciuti. A mio parere ci sono alcuni elementi di novità nella proposta di Montani, che meritano di essere ripercorsi. In primo luogo, si tratta del modo di trattare il carattere “testimoniale” dell’immagine. Uno studio approfondito di questo tratto dell’immagine era stato affrontato, perfino nei suoi abusi, dalla semiotica, dall’ermeneutica e dall’iconologia critica: vanno qui ricordati almeno i nomi dei compianti Paul Ricoeur e di Tzvetan Todorov, oltre a quello di Georges Didi-Huberman.
Rispetto a questo consolidato filone di studi, Montani ridisegna i contorni della questione e pone la questione del potere di testimonianza che l’immagine riesce a esercitare sul presente. Proprio a partire dall’evento traumatico dell’attentato alle Twin Towers, ma guardando anche al recente passato italiano, in particolare al rapimento Moro, l’autore mostra come la testimonianza di cui è portatrice l’immagine non si limita a rafforzare la memoria, individuale o collettiva. Al contrario, l’immagine è capace di attivare processi di rielaborazione del ricordo, che producono effetti di senso, rilevanti soprattutto in relazione con il presente.
Esemplare è l’analisi condotta su Buongiorno, notte (2003), film in cui Marco Bellocchio riflette sul significato storico e politico della fine tragica dello statista democristiano Aldo Moro. Montani interpreta la sequenza in cui Moro, liberato dalla brigatista di nascosto dai suoi compagni, passeggia per le vie di una Roma deserta sotto una leggera pioggia mattutina. La sequenza precede il finale del film, che è anche la vera fine dell’uomo politico, trucidato da brigatisti che lo hanno processato e condannato a morte. Al finale segue il filmato in cui un papa Paolo VI prossimo alla morte celebra la messa di suffragio per il morto, di fronte ai principali esponenti della classe politica italiana. Si celebra qui, per Montani, la “notte della repubblica”, non più capace di autoriformarsi, rispetto alla quale il contro-finale della liberazione del prigioniero rappresenta il sentimento più profondo, ma mai elaborato, della coscienza collettiva dell’intero paese. Si vede bene come questo modo di trattare l’immagine presupponga un lavoro dell’immaginazione che si svolge tanto a monte quanto a valle: esso riguarda, in altre parole, sia l’attività creativa dell’artista sia la prestazione interpretativa dello spettatore e tocca, oltre l’estetica, aspetti etici fondamentali dell’esperienza che condividiamo con gli altri.
Negli anni in cui esce il libro, sembra che trionfino negli studi sull’immagine forme di riduzionismo, interessate solo alla vita del supporto materiale dell’immagine, quello che in inglese si chiamerebbe picture in opposizione a image, l’immagine mentale, oppure ai meccanismi di funzionamento del cervello che reagisce alla percezione di immagini. Di fronte a questa alternativa, o visual studies o neuroestetica, il metodo di lettura delle immagini proposto da Montani rivendica invece il ruolo di un’immaginazione, che va intesa non tanto come una facoltà innata quanto come una tecnica che il soggetto mette a punto mentre si sforza di afferrare il senso della realtà.
La proposta di Montani si colloca nel punto d’incrocio tra due importanti tradizioni dell’estetica moderna: quella kantiana e quella warburghiana. D’accordo con Warburg, l’autore ritiene che il senso storico delle immagini non sia solo quello inscritto nella superficie dell’immagine, in ciò che essa rappresenta esplicitamente. Il senso di un’immagine rinvia sempre a un sostrato profondo di memorie collettive, che costituiscono campi di tensione tra forze diverse. Ma, d’accordo con Kant, egli pensa anche che, ogni volta che un’immagine prende forma e si offre alla percezione, essa esibisce un senso nuovo, un modo originale di riferirsi alla realtà, perché ogni immagine fa parte di un processo di schematizzazione che fa del mondo qualcosa di esperibile. In altre parole, ogni interpretazione di un’immagine non è solo la ripetizione di uno strato di un senso depositato nella memoria di quell’immagine, ma comporta l’emergere di un senso nuovo.
Il concetto chiave attraverso cui Montani rende conto di questa modalità di lavorare con le immagini è quello di «autenticazione». Nella prospettiva qui assunta, non interessa stabilire se le immagini sono autentiche o false: la sequenza già citata del film di Bellocchio è evidentemente un falso storico. Ma le immagini, anche se non sono vere, possono autorizzare singoli processi di comprensione e perfino prefigurare procedure inedite di lettura della realtà.
Diventa chiaro allora perché questo libro costituisca l’imprescindibile premessa delle riflessioni successive di Montani: l’autenticazione contiene già in germe la scrittura estesa delle immagini. Questo collegamento ci consente anzi di fare il punto su due linee di sviluppo dell’immagine contemporanea, di cui Montani non ha smesso di interessarsi. Da un lato, il concetto di autenticazione si rivela particolarmente fecondo per analizzare le logiche creative attraverso cui il cinema documentario si riappropria delle memorie, restituendo loro la qualità di agenti trasformativi della vita e dell’esperienza. Penso a Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi e al recente Marx può aspettare (2021) di Bellocchio. Dall’altro lato, il concetto anticipa l’esplosione dell’universo delle immagini in movimento, dal cinema agli ambienti immersivi e ad altri usi (interattivi, virtuali, ibridi) delle immagini. Secondo la mia lettura del saggio di Montani, l’autenticazione fa segno a una resistenza, non tanto del cinema quanto della forma-cinema, quale paradigma di queste sperimentazioni. Prende avvio da qui un viaggio attraverso le immagini, di cui l’autore continua a mostrarci i risvolti meno evidenti.
Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Meltemi, Milano 2022.