Il linguaggio consente di dare un nome a ciascuna fase della nostra esistenza permettendoci di parlare di noi come donne e uomini che appartengono al mondo in maniera esclusiva, che vivono in esso, in esso si incontrano e stabiliscono molteplici reti di legami i cui elementi di congiunzione si basano su fattori di distanza e vicinanza. Come donne e uomini siamo felici, soli, innamorati, persi, elusivi, fedeli: siamo così come ci riconosciamo nel linguaggio, con un sorriso sul volto o una scusa pronta per scappare. Tuttavia, c’è una sfera in cui la corrispondenza sinottica del linguaggio viene meno: la sessualità femminile è diversa da quella maschile, e non soltanto perché un termine funziona diversamente se declinato al maschile o al femminile. In termini espliciti, il corpo della donna è più esposto al discorso sul sesso.
Ad esempio, c’è una parola che indica il momento in cui donna diventa fertile, una parola (e un segno) che indica la perdita della verginità, una parola per affermare la pienezza dell’utero, una parola per ciascuna delle fasi della gravidanza, infine, c’è la parola nascita che assume un significato più forte di tutte le altre, perché manifesta la capacità dell’essere umano di continuare a vivere in questo mondo. Da questo elenco di parole, meno di sessant’anni fa, in Francia – e in altri Paesi europei come l’Italia – il termine “aborto” era escluso per diverse ragioni. La prima, di ordine etico, riguardava l’impossibilità di concepire un pensiero che fosse contrario alla spinta propulsiva della vita innescata dal corpo della donna; la seconda, di ordine morale, si concentrava sulla libertà che ciascuna donna poteva esercitare sul proprio corpo; la terza, di ordine giuridico e religioso, si riferiva implicitamente al vincolo matrimoniale che unisce una donna e un uomo con lo scopo di far proseguire la specie attraverso la gravidanza, “un evento” dal quale nessuna donna dovrebbe tirarsi indietro.
Nel 2000, il romanzo L’evento di Annie Ernaux ha unito queste ragioni nella storia di una studentessa ventitreenne costretta a ricorrere a una “fabbricante d’angeli” per abortire. Nell’adattamento omonimo del romanzo, Audrey Diwan attribuisce un nome proprio a questa ragazza nata nel 1940 – Anne, rendendo così esplicita la corrispondenza tra Ernaux e la protagonista –, un nome che la rende riconoscibile all’interno di quell’insieme di donne che, come lei, hanno trovato un diniego di fronte alle richieste di aiuto. La semplicità e la crudezza delle immagini attraverso cui Diwan ricostruisce l’“evento” aderiscono al corpo della ragazza perché sono la sua storia e non c’è nessun riserbo per lo spettatore che entra in possesso del corpo di Anne passando attraverso il suo sguardo chiaro.
È questa immediatezza delle immagini ad abilitare una forma profonda di vicinanza che non passa più attraverso il linguaggio: sono le espressioni del volto di Anne a raccontare il dolore, il sollievo, la paura e infine la tenacia che non lascia mai spazio alla rassegnazione. In risposta agli sguardi di rimprovero e imbarazzo delle amiche, al rifiuto dei medici, alla mancanza di responsabilità dell’uomo che, con lei, ha concepito il feto, Anne continua a cercare un modo per risolvere “questo evento”. E, se non bastano le punture prescritte da un medico (il cui effetto è quello di abbassare i rischi di un aborto spontaneo) e i ferri per cucire, Anne dovrà affidarsi alle mani di una donna in un’abitazione privata, lontana dai camici e dalle strutture ospedaliere.
L’esito della procedura tarda ad arrivare e Anne è costretta a sottoporsi a un secondo intervento che indebolirà ancora di più il suo corpo, insieme al corpo che porta in grembo. Ancora una volta, il racconto filmico è sostituito integralmente dalle immagini: l’espulsione del feto, il taglio del cordone ombelicale, l’emorragia. Il corpo umano è permeabile al dolore fisico perché esiste una strana forma di sensibilità che ci permette di sentire il dolore degli altri negli stessi punti in cui gli altri lo percepiscono: la storia di Anne è questo dolore che Diwan trasforma in espressione e, quando le immagini riescono a sostituire le parole, non serve aggiungere molto altro.
L’événement traccia una linea di negazione sul termine femminile “colpa”: da uno stato iniziale di singolarità, si è in due quando si concepisce, ma si resta una quando il feto non viene accettato dall’altro e l’aborto diventa il solo modo per tornare allo stato di unitarietà iniziale. Diwan tratteggia con precisione i caratteri di questa scelta che non è la più conveniente, ma la più traumatica, frutto di una riflessione che mette al centro la donna e che, ancora oggi, è difficile da accettare. Il punto è che, al di là di considerazioni etiche, morali, religiose e politiche, il termine “responsabilità” continuerà a essere declinato al femminile.
Riferimenti bibliografici
A. Ernaux, L’evento, L’orma, Roma 2019.
L’événement. Regia: Audrey Diwan; sceneggiatura: Audrey Diwan, Marcia Romano; fotografia: Laurent Tangy; montaggio: Géraldine Mangenot; musiche: Evgueni e Sacha Galperine; interpreti: Anamaria Vartolomei, Kacey Mottet-Klein, Luàna Bajrami, Louise Orry Diquero, Louise Chevillotte, Pio Marmaï, Sandrine Bonnaire, Anna Mouglalis, Leonor Oberson, Fabrizio Rongione; produzione: Rectangle Productions (Edouard Weil, Alice Girard), France 3 Cinéma, Wild Brunch, SRAB Films; origine: Francia; durata: 100’.