Un lungo buio, poi il graticcio del teatro debolmente illuminato. La voce lontana di Eduardo che in una scena di Uomo e Galantuomo (1922) dà il segnale a una scalcagnata compagnia di guitti battendo le mani: “Comincia la prova!”. Un “servo di scena” seduto in quinta che legge la didascalia di un copione: “Fa freddo. Lungo il cortile della Prefettura, ancora immerso nella caligine livida di un’alba invernale, si intravvede come in un barlume la sagoma di un uomo in età avanzata che cammina avanti e indietro, battendo il passo e tutto raggomitolato in se stesso per difendersi dal freddo”. Quella stessa didascalia prende forma nella sagoma di un uomo stretto in un cappotto nero che avanza lentamente in proscenio e misura a lunghi passi le dimensioni del palco, mentre la sua grande ombra si allunga sulle pareti del boccascena. Un giovane piantone in uniforme ripete la stessa didascalia a memoria con accento veneto. Una grande paratia vista dal retro si solleva, la visione insomma di un retroscena che pone lo sguardo dello spettatore nella posizione di chi osserva da dietro le quinte. Quindi l’uomo e il soldato scompaiono nel sottopalco attraverso una botola che si apre. È l’inizio, quasi un esergo metateatrale, della messinscena di L’arte della commedia (1964) di Eduardo a opera di uno degli attori-registi più singolari e inventivi di oggi: Fausto Russo Alesi.
A partire da questo inizio si mettono in evidenza, con un movimento di decostruzione, gli elementi del teatro, enucleandoli così all’interno di una riflessione che sembra partire da quella frase che per due volte risuona nella commedia enunciata da Campese come una epitome del senso di tutta la tessitura drammaturgica: “Perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione”. Il testo eduardiano del resto è a sua volta un congegno “metadrammaturgico”: vi si immagina (più di quarant’anni dopo Uomo e Galantuomo) il capocomico di una compagnia di guitti, Oreste Campese, che, mentre recita in un paesino, vede distrutto da un incendio il capannone che ospita i suoi spettacoli e chiede udienza al nuovo prefetto per perorare la causa degli uomini di teatro, per reclamare un riconoscimento nel nome della dignità professionale di un mestiere che è l’arte dell’illusione, l’arte della finzione, l’arte, appunto, della commedia.
Accade che nel serrato confronto con il prefetto questi conceda un foglio di via a Campese, ma per errore gli passa la lista delle persone che quel giorno gli hanno chiesto udienza (esemplarmente un prete, una maestra, un medico e un farmacista: la religione, l’istruzione, la sanità, cioè le parti istituzionali dell’impianto sociale). E accade che Campese, umiliato dal potere che rifiuta di riconoscere il valore politico di testimonianza della verità attraverso la finzione che è propria del teatro, lo sfidi sul terreno che gli è proprio: il gioco del teatro, il gioco delle parti che si gioca a teatro. Alla compagnia di Campese era stato concesso il teatro comunale per recitare ancora una sera, benché il prefetto consideri il teatro semplice intrattenimento, un mestiere da “buffoni”. Il capocomico “ingoia il rospo” ma invita il prefetto ad assistere al debutto dello spettacolo che si intitola “Occhio al buco della serratura” e offre al pubblico piccole tranche de vie “con quarantadue personaggi e dai dodici ai quindici travestimenti”.
Il prefetto rifiuta indignato e allora Campese lo sfida: se non verrà a teatro a vedere i suoi attori, saranno gli attori che sfileranno davanti a lui. “Li mandi pure questi suoi personaggi in cerca d’autore” ribatte il Prefetto, e Campese ribatte: “Pirandello non c’entra, eccellenza. Se mi deciderò a mandare i miei attori qua sopra, lo farò allo scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o no. Non saranno personaggi in cerca d’autore, ma attori in cerca di autorità”. Si presenteranno allora sotto gli occhi del Prefetto e del suo segretario quei personaggi “presi dalla vita” di cui non si potrà distinguere il vivere e il recitare, il corpo reale dalla parvenza truccata. Dall’incendio del capannone si è salvata la cassa con il trucco e i costumi e Campese avverte il prefetto che i suoi attori sanno trasformarsi, possono farsi alti, bassi, grassi, magri. Con il suo testo più pirandelliano Eduardo costruisce un meccanismo vertiginoso che allo stesso tempo si smarca dal pirandellismo e rovescia il modello del “teatro nel teatro” in quello ancor più radicale di “teatro nella vita”, fino a identificare e insieme confondere teatro e vita in una indecidibilità sconcertante. Intervistato da “Stampa Sera” nel 1952 Eduardo aveva del resto dichiarato: «Perché è proprio così, credetemi: teatro e vita, finzione scenica e realtà vissuta sono una cosa sola. E non è una frase fatta, la mia» (De Blasi 2016, p. 223).
Con L’arte della commedia Eduardo scrive anche il suo testo più sperimentale, una sorta di mise en abyme dei suoi meccanismi: dalla forma-sfilata dei personaggi sotto gli occhi di un testimone (Questi fantasmi, 1946; Le voci di dentro, 1948) alla identificazione del reale con la parvenza, l’immagine illusoria (La Grande Magia, 1948). Un vero e proprio manifesto teorico sull’arte del rappresentare, del fare teatro per rivelare la vita, dove l’astrazione allegorica si piega nella deformazione grottesca e nelle forme del paradosso, al punto che, nel finale della commedia, assistiamo a una morte che potrebbe essere apparente come vera:
“L’arte della commedia” non solo nel titolo afferma il tema del teatro ma direttamente riporta la commedia dell’arte che è chiamata in causa attraverso una inversione tra specificante e specificato. Il titolo allude del resto alla capacità del capocomico di impostare una rappresentazione “improvvisata” a beneficio di un singolo spettatore, che non saprà più distinguere tra i ruoli recitati dagli attori e le storie che si riferiscono a vicende reali, perciò resterà per lui irrisolto un dubbio che l’autore non scioglie, perché appunto vuole intendere che la rappresentazione in scena e la realtà possono essere tanto simili tra loro da risultare perfino intercambiabili (ibidem).
Lo spettacolo di Russo Alesi coglie in questo assunto eduardiano di scambio tra teatro e vita tutta l’ambiguità e insieme tutta la valenza politica (il rapporto micidiale tra gli attori e il potere che da Eduardo in un passaggio del testo viene fatto risalire alla Commedia dell’Arte, e il rapporto irrisolto e conflittuale tra lo Stato e il Teatro che Eduardo ha vissuto sulla sua pelle, ad esempio nelle battaglie per l’apertura del Teatro San Ferdinando), e lo fa con essenzialità e veemenza. Il lavoro di regia e l’orchestrazione degli attori (tutti concentrati in una straordinaria tensione scenica, basti vedere come Filippo Luna restituisce l’umiliazione e il livore del medico di paese, o Imma Villa il dolore pudico della maestra elementare) si giocano sulle disposizioni spaziali, sull’incastro delle ombre, sulle cadenze concitate, stirate, inceppate, convulse, allucinate del gioco attoriale, ma allo stesso tempo spezzando la ritmica vocale, in una partitura antinaturalistica, contratta o dilatata, ponendo la parola del testo in un’aura di evidenza e insieme di ambiguità, esponendola e nascondendola a un tempo.
In ciò Russo Alesi riprende certo la lezione di Luca Ronconi (con cui ha molto lavorato) ma soprattutto definisce e scava in un suo peculiare e personalissimo lavoro di polifonia decostruttiva che si riversa nei ritmi scenici, nell’uso scarnificato dello spazio e degli oggetti, vivendo in modo vibrante e con potenza emozionale la parola drammaturgica, disegnandola su quel suo volto bizantino, corrusco e insieme cupo che pare una icona russa, ferendo e sferzando e soffrendo le parole di Eduardo, come già fece dieci anni fa in un esemplare Natale in casa Cupiello interamente concentrato in un “a solo” dove rifrangeva le voci dei personaggi incorporandole matericamente in sé quasi ne fosse posseduto.
In questa sua Arte della commedia Russo Alesi infonde un’aria da grottesco nero, un’atmosfera gogoliana (si pensa a L’ispettore generale); opera un sottile ribaltamento della “quarta parete” che assume valenza concettuale con la facciata dell’ufficio vista come “a rovescio” per quello che è: un elemento di scena, uno “spezzato” teatrale; convoca le entrate e le uscite come evocate o risucchiate dal fondo scena attraverso la porta che si apre sulla parete teatrale; fa irrompere ironicamente la canzone di Aznavour Les comédiens (“Viens voir les comédiens, voir les musiciens, voir les magiciens…”). Insomma Russo Alesi lavora sulla metafora teatrale eduardiana restituendola in tutta la sua concretezza emotiva: il suo Oreste Campese appare quasi come un “angelo sterminatore” inviato dalle potenze teatrali a fare giustizia, a reclamare un riconoscimento per i suoi attori e per il valore etico-politico del teatro, proprio nel momento in cui sospende la credenza attraverso un paradosso. L’esasperazione della verosimiglianza coincide con il misconoscimento, con il creare la sospensione, il dubbio, l’imprevisto, l’incidente “creato apposta”, insomma l’incantesimo del teatro che si pone come dilemma indecidibile.
Scrive Fausto Russo Alesi nelle note di regia: “E per sciogliere il dilemma cos’altro ci vuole se non un palcoscenico? è il Teatro che crea attraverso la finzione la sua realtà e l’inganno è l’accesso migliore alla verità”. Proprio questa vertigine scenica è il nucleo dissimulato del testo eduardiano previsto per attori che devono recitare altri attori posti in bilico tra illusione e credenza. Bilico vertiginoso, crinale tra il teatro e la vita che Eduardo racchiudeva in una frase: “Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”. Lo spettacolo rende palpabile tale nucleo segreto e al contempo lo astrae, attraverso un sapientissimo impianto che risulta un teorema scenico, un ironico, tutto teatrale, gioco delle parti e insieme un crudele resoconto delle parti in gioco.
Riferimenti bibliografici
N. De Blasi, Eduardo, Salerno Editrice, Roma 2016.
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, L’arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi. Pellegrini Editore, Cosenza 2014.
Foto di Anna Camerlingo.
L’arte della commedia di Eduardo De Filippo. Adattamento e regia: Fausto Russo Alesi; scene: Marco Rossi; costumi: Gianluca Sbicca; musiche: Giovanni Vitaletti; luci: Max Mugnai; interpreti: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Michele Schiano di Cola; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Elledieffe; durata: 180′; anno: 2023.