Non sono tutte di puro entusiasmo le opinioni sui primi episodi di L’amica geniale, la serie prodotta in collaborazione da RAI, HBO, Wildside, Fandango e Tim Vision, e ispirata al bestseller di Elena Ferrante. Dopo l’ottima accoglienza ricevuta al Festival di Venezia nel settembre scorso, la carta stampata delle ultime settimane ha riservato molti apprezzamenti ma anche alcune parole dure nei confronti del progetto sceneggiato dalla stessa Ferrante con Francesco Piccolo e Laura Paolucci, e diretto da Saverio Costanzo.

Quella riguardante il rapporto tra cinema e letteratura è una vecchia storia, qualcosa come un peccato originale che grava sull’immagine in movimento: la presunta impossibilità da parte del primo di eguagliare la qualità straordinaria della seconda. Si tratta di un luogo comune a suo tempo affrontato e decostruito da Lino Micciché, in occasione dell’uscita di Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica, quando la pretesa di un confronto “letterale” con l’opera omonima di Giorgio Bassani aveva rischiato di mortificare – con tanto di «interventi avvocateschi e giudiziari» – la specifica qualità compositiva dell’oggetto filmico: «un errore marchiano, poiché, essendo il cinema e la letteratura due pratiche simboliche abissalmente diverse, ogni pretesa di reciproca fedeltà è, a priori, logicamente e culturalmente insensata» (1980, p. 82).

I primi episodi di L’amica geniale presentano senza dubbio diversi limiti – l’esigenza di rappresentare l’Italia ai fini dell’esportazione; l’inserimento non sempre riuscito della voce narrante – ma anche molti aspetti interessanti. Su tutti, l’idea di concepire l’ambientazione popolare e l’ambiente scolastico come una rivisitazione di un luogo comune del nostro immaginario: Cuore di Edmondo De Amicis (1886). Si tratta di una rivisitazione che sembra però concepita come una rifondazione – su basi completamente diverse, con tutt’altra sensibilità nei confronti delle questioni di classe e di genere – dell’orizzonte valoriale e morale del più celebre romanzo per ragazzi della letteratura italiana. Come è già stato osservato nelle pagine di questa rivista, la serie «mostra l’utopia impossibile dell’accesso all’istruzione in un Paese che nel tempo cambia struttura e ricompone assetti sociali, lasciando però individui smarriti che perdono a tratti i margini delle cose».

Ma quattro puntate restano di certo poche per cogliere, nel suo insieme, i limiti e le potenzialità di un progetto seriale. Allo stesso modo, non è il caso di riprendere l’esausta diatriba con i sostenitori dell’autonomia del testo letterario e della sua impareggiabilità. È piuttosto il momento di appuntarsi qualcosa che rischia di sfuggire, per ritornarci magari in futuro (fuori stagione); focalizzare l’attenzione su di una sequenza in particolare: qualcosa che resta, anche se è passibile di assumere significati diversi in base all’evolversi degli episodi. Scegliere una sequenza, non tanto per compararla con il suo corrispettivo letterario, quanto per osservarla in controluce, in riferimento alla fonte filmica con la quale ha l’ambizione di misurarsi.

Siamo alla fine del secondo episodio della serie, intitolato I soldi. Don Achille, il capo del rione, è appena stato ucciso per mano violenta, suscitando un senso di smarrimento e improvvisa libertà tra gli abitanti. D’improvviso, sotto lo sguardo di Lenù e Lila, le due protagoniste, arriva una camionetta dei carabinieri. Il montaggio audiovisivo sovrappone ai dialoghi e ai rumori ambientali una musica dai toni drammatici. La macchina da presa si avvicina e offre un totale dell’arresto del falegname, Alfredo Peluso, che nel primo episodio aveva perso la sua bottega e il lavoro proprio per colpa di don Achille.

La scena prosegue in modo particolarmente concitato. Mentre l’uomo rivendica la propria innocenza, la moglie Giuseppina esce dal portone di casa, si divincola tra le forze dell’ordine, e si scaglia in difesa di Alfredo. Un campo e controcampo restituisce il disperato tentativo di rincorrere il mezzo dei carabinieri sul quale l’uomo viene trasportato in carcere. Un camera-car mostra l’inevitabile allontanamento. Le ultime energie di Giuseppina bastano solo a gridare il nome del suo amato: “Alfredo!, Alfredo!”, fino alla drammatica caduta sotto gli occhi di tutto il quartiere.

Chi non ha riconosciuto il découpage della sequenza della “morte di Pina” di Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, utilizzato come riferimento per la messa in scena e il montaggio di Costanzo? Non è certamente una sequenza scelta a caso all’interno della storia del cinema italiano e del cinema tout court. Si tratta piuttosto di un unicum, qualcosa di indelebile e di non usurabile: la sequenza nella quale la finzione del cinema e la realtà della guerra sembrano essersi fuse come non mai, e dove la potenza “caravaggesca” del gesto di Anna Magnani incarna lo slancio di una città e di una nazione verso la liberazione, senza nascondere il prezzo altissimo da pagare. Si tratta di uno dei possibili punti di partenza – meglio sarebbe, fonti di energia – della modernità cinematografica e della cultura italiana del Dopoguerra.

Ecco allora che ritroviamo la sequenza più forte del Neorealismo e della storia del cinema italiano impiegata come supporto per la messa in scena di una sequenza (per il momento una “sequenza qualunque”) di una serie televisiva contemporanea. Di fronte a un’operazione di questo tipo, una critica particolarmente suscettibile o che rivendichi una concezione in qualche modo “sacrale” delle fonti filmiche troverebbe di certo occasione per gridare all’oltraggio. Ma anche una critica più aperta all’ibridazione delle forme e alle sperimentazioni compositive può comunque riconoscere nella scelta di ricalcare la morte di Pina per mettere in scena la caduta di Giuseppina una qualche forma di “immoralità” o, meglio, una contravvenzione all’etica e all’estetica della forma filmica.

Dell’abiezione è il titolo di un celebre articolo pubblicato da Jacques Rivette nel 1961 e dedicato a Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo. Vi si prendeva di mira una scelta di regia, la scelta di utilizzare un carrello in avanti per esaltare la sofferenza del personaggio femminile:

Guardate, in Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo.

Come è noto, tale frase ha dato luogo a numerose riflessioni e riprese, costituendo il punto di partenza (e di arrivo) della concezione, al contempo, estetica ed etica del cinema di uno tra i più grandi critici del Novecento: Serge Daney.

Discutere dell’inopportunità di una scelta di regia e montaggio come quella della sequenza finale del secondo episodio di L’amica geniale non è dunque soltanto un modo per attenuare i toni – compatibilmente con l’aria del tempo e con l’indifferenza generalizzata nei confronti di simili sfumature compositive – rispetto alle posizioni critiche che hanno caratterizzato i decenni passati. Si tratta piuttosto di assumere consapevolezza che citare “la morte di Pina” è un’operazione che va ben al di là della qualità straordinaria del “design filmico” della sequenza rosselliniana. Ad essere convocata e chiamata in causa con essa è l’intera configurazione narrativa, figurativa e valoriale del capolavoro rosselliniano nello scenario culturale della Liberazione.

Parlare dell’opportunità e dell’inopportunità di scomodare un riferimento filmico come quello a Roma città aperta per mettere in scena il “fatto di cronaca”, che avviene nel quartiere napoletano anni Cinquanta dove si svolgono le vicende di L’amica geniale, è dunque un modo per riflettere criticamente sul destino degli archivi filmici e visuali nell’epoca della loro manipolabilità integrale. È forse questo il lascito più importante delle ricerche sviluppate nel corso degli ultimi decenni sulle forme di intertestualità e di intermedialità: che nessun esercizio analitico o critico può esaurirsi nel semplice riconoscimento delle fonti, ma deve riflettere sulle ragioni e sui modi della loro convocazione e riattivazione; che tutte le forme, le figure e i modelli provenienti dal passato possono essere infinitamente rielaborati purché non si smetta mai – ad ogni ripresa – di riflettere sulla necessità e sugli effetti di tale operazione.

Certo, gli episodi visti finora sono pochi per pensare di poter dire l’ultima parola sull’opportunità di un riferimento filmico così impegnativo. Non è del resto chiaro quale sarà il peso assunto dalla memoria del cinema italiano all’interno della serie televisiva di Costanzo: se citazioni di questo tipo continueranno a essere incastonate all’interno della composizione filmica – in nome della loro spettacolarità e come una strategia d’esportazione del “made in Italy” – o se il ricorso all’archivio e la rielaborazione della cultura visuale italiana daranno luogo a nuovi e produttivi innesti tra presente e passato.

Ecco allora una ragione in più per seguire fino in fondo L’amica geniale: comprendere se la citazione della “scena madre” del cinema italiano resterà fine a se stessa o se finirà per trovare retrospettivamente un senso nell’evoluzione narrativa, figurativa e valoriale della serie. Con la viva speranza di essere contraddetti e sorpresi.

Riferimenti bibliografici
S. Daney, Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, il Castoro, Milano 1995.
E. De Amicis, Cuore, Feltrinelli, Milano 2015.
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
L. Micciché, Cinema italiano degli anni ’70. Cronache 1969-78, Marsilio, Venezia 1980.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.

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