Sarebbe tutto più semplice e diretto se i corpi fossero soltanto corpi, senza essere disturbati dai pensieri e dai desideri di chi abita – più o meno felicemente – quegli stessi corpi. Perché il corpo sta al mondo soltanto come corpo, in modo immediato e spontaneo, come un gatto che ci fissa da un davanzale, oppure un albero sotto la pioggia. I corpi sono nel mondo, coincidono con il mondo, mentre i pensieri sono fuori dal mondo (in questo senso siamo tutti platonici, anche i più intransigenti materialisti). Ma il corpo, il corpo umano, non è mai soltanto un corpo, prima di tutto è un corpo pensato, desiderato o detestato, un corpo affatto immaginario. È questo dualismo fra corpo e immaginario del corpo il tema del film Kokomo City (2023) opera prima della musicista e regista transessuale D. Smith. È la storia, raccontata in un sofisticato bianco e nero e attraverso le loro dirette parole, di quattro sex workers nere americane che vivono tra New York e Atlanta: Daniella Carter, Koko Da Doll (che è stata uccisa per strada il 18 aprile dello stesso 2023; il principale sospettato è un diciassettenne con cui era stata vista litigare poco prima), Liyah Mitchell e Dominique Silver.

Il modo meno interessante di descrivere questo film, che naturalmente è anche quello più diffuso fra le varie recensioni che si possono leggere in giro, è quello di un racconto sulla spietata durezza delle vite di queste persone, sui pericoli della prostituzione, sullo stigma sociale a cui sono condannate, a cui si aggiunge il fatto incredibile che essendo nere sono respinte anche dalla stessa comunità black, perché i loro clienti neri non possono ammettere di essere attratti dalle trans (l’immaginario dei maschi neri che esce da questo film è tristemente, e profondamente, maschilista). Sicuramente Kokomo City è anche questo, ma insistere su questo aspetto ovvio significa non aver visto il film, e limitarsi a ripetere il solito luogo comune vittimistico sul mondo della prostituzione. Già la scelta del bianco e nero (oltre agli inserti ironici con sequenze con cartoni animati, insieme alle scritte in sovrimpressione di un giallo fosforescente che inframmezzano le immagini del film) che esalta la bellezza dei corpi delle trans ci dovrebbe far capire che D. Smith non ci sta facendo vedere delle vittime e tanto meno un ambiente di degrado (una parola che andrebbe proibita, soprattutto nel caso di un film come questo); si tratta piuttosto di mettere in mostra dei corpi in tutti i sensi straordinari. In effetti vedendo le immagini si è colpiti proprio dalla eccezionalità di questi corpi, alcuni molto belli altri molto meno, tutti corpi però segnati da una condizione di radicale eccentricità rispetto ai modelli socialmente accettati (e quindi imposti) della corporeità femminile e maschile nel mondo occidentale. Si pensi al modo in cui queste trans accentuano i tratti “femminili” del loro corpo, seni, glutei, abbigliamento, labbra, ciglia finte e così via. Solo superficialmente possiamo definire questi tratti come “femminili”, appunto, perché in realtà sono così accentuati da essere alla fine irrealistici. Questi corpi vogliono essere qualcosa di più che dei corpi semplicemente femminili o maschili. È questo di più la posta in gioco di questo film, più che femminile, più che maschile.

Un di più che, e qui si mostra con tutta la sua forza la contraddizione fra la potenza intrinseca di questi corpi e l’immaginario delle trans che abitano questi stessi corpi, che eccede ogni discorso sul desiderio di diventare una donna. L’immaginario di queste sex workers per necessità (ma talvolta sembra anche per vocazione; questa ambiguità rappresenta un altro motivo di interesse per Kokomo City) è binario; si tratta di persone che non si riconoscono nel genere che è stato loro assegnato alla nascita – in questo caso il genere maschile – e vogliono essere riconosciute come donne. In effetti quando parlano dei loro clienti non riescono a uscire dal luogo comune che li vuole dei gay nascosti, che quindi cercherebbero le trans per poter realizzare i propri segreti e inconfessabili desideri omosessuali. Forse è così, ovviamente – sui loro clienti ne sanno certamente più loro che chiunque altra. Tuttavia il film, non sappiamo se intenzionalmente o no – ed è questo un altro dei meriti del film, che mostra più di quanto ci sia nelle intenzioni dell’autrice –, mette in scena una possibilità ulteriore, molto più interessante. Questa possibilità appare in tutta la sua potenza nell’ultimo straordinario (un aggettivo usurato come questo è l’unico che si possa usare per provare a rendere l’effetto che provoca nello spettatore) fotogramma del film, in cui vediamo il viso e il petto scoperto di una bellissima e perturbante Dominique Silver in piedi mentre ci fissa attraverso l’obiettivo della cinepresa; poi l’inquadratura scende e si allontana da lei, e la vediamo completamente nuda. La scena dura pochi istanti, il film finisce bruscamente. Ecco il punto, che cosa vediamo in quel corpo straordinario? Partiamo da quello che ci lascia vedere il nostro immaginario binario, cioè quello che non sa pensare che nei termini della opposizione fra donna e uomo, da quello che immagina appunto di vedere: il corpo di un uomo, perché i genitali esterni di Dominique Silver sono inequivocabilmente quelli di un uomo, che tuttavia è anche un corpo di donna come dimostra il seno altrettanto inequivocabilmente femminile e il viso contornato dai lunghi capelli che le scendono sul collo. Quindi staremmo vedendo un corpo sia femminile che maschile, oppure, per essere ancora più aderenti all’immaginario esplicito delle trans del film, un corpo in transizione da uomo a donna. Questo vuol dire che l’immaginario è binario, cioè che non riesce a non pensare che a partire da questa distinzione assunta come fondamentale e indiscutibile (l’immaginario spesso è conservatore). Eppure questa brevissima scena finale mostra anche qualcos’altro, qualcosa che non sappiamo (ancora?) immaginare, ma che tuttavia il reale di quel corpo perturbante mette in scena in modo assolutamente evidente. Cioè stiamo vedendo quello che non riusciamo ad immaginare.

A proposito di questo visibile inimmaginabile il filosofo in transizione (propriamente, non da donna a uomo, ma da donna a transizione) Paul B. Preciado scrive in Dysphoria mundi che «la nostra anima inumana e sconfinata, geologica e cosmica percorre il mondo» (2023, pp. 17-18). Ecco quello che forse vediamo senza riconoscerlo nella sequenza finale di Kokomo City: non vediamo un corpo che sarebbe contemporaneamente femminile e maschile – una visione inquietante ma tutto sommato sopportabile per il nostro immaginario binario, come dimostra l’eterno mitologema dell’ermafrodito – vediamo piuttosto un corpo che non è né femminile né maschile. Vedremmo allora un corpo al di là della nostra (sempre troppo misera) immaginazione, un corpo abitato da una “anima inumana” appunto. Un corpo al di là dell’unica coppia di identità ammesse, o femmina o maschio, o vagina o pene, o mamma o papà. In questo senso, prosegue Preciado, «il punto non è più chi siamo, ma in che cosa ci trasformeremo» (ivi, p. 38). Il corpo inimmaginabile di Dominique Silver mostra allora che non è così importante il punto di arrivo di questa trasformazione (da uomo a donna, da donna a uomo, come vuole l’immaginario binario), quanto riuscire ad abitare l’indeterminazione fra donna e uomo che quel corpo mette in scena. In questo senso quel corpo è letteralmente un corpo mostruoso, come scrive lo stesso Preciado in Sono un mostro che vi parla (la celebre conferenza tenuta all’École de la Cause Freudienne a Parigi, nel 2019): «Il mostro è colui che vive in transizione. Colui il cui volto, il cui corpo e le cui pratiche non possono ancora essere considerate come vere in un regime di sapere e di potere determinati» (2021, p. 34). Cioè non solo un corpo che non sappiamo immaginare, si tratta piuttosto di un corpo che non ha bisogno di essere immaginato. Un corpo, e basta.

Un corpo del genere potrà finalmente, e liberamente, vivere a Kokomo, come dicono i versi semplicissimi e banali (il corpo è banale, è l’immaginario che lo rende insopportabile) del singolo Off the Florida Keys, tratto dall’album Still Cruisin’ (1989) dei Beach Boys:

There's a place called Kokomo
That's where you wanna go
To get away from it all
Bodies in the sand
Tropical drink melting in your hand
We'll be falling in love
To the rhythm of a steel drum band
Down in Kokomo

Riferimenti bibliografici
P.B. Preciado, Sono un mostro che vi parla, Fandango, Roma 2021.
Id., Dysphoria mundi, Fandango, Roma 2023.

Kokomo City. Regia: D. Smith; fotografia: D. Smith; montaggio: D. Smith; produzione: Couch Potatoe Pictures, Hillman Grad Productions; origine: Stati Uniti d’America; durata: 73’; anno: 2023.

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