Alcuni fotografi sono capaci di spiegare con le immagini fenomeni e concetti a volte non ancora assimilati dagli studiosi, come la naturale convivenza, in ambito fotografico, tra documentazione sociale e arte. La fotografia è insofferente ad ogni perimetro, non ha patria e non ha padroni, non appartiene a nessuno, neanche a una sola disciplina. Ciononostante, è usata da tutti: come oggetto sociale e prodotto della cultura di massa è stata da sempre celebrata, espropriata, modificata, smembrata, come oggetto d’arte, riverita, monetizzata e sfruttata. Forse è proprio quando viene racchiusa nella protezione rassicurante, ma anche condizionante, della cornice – e del passe-partout – che la fotografia rende bene evidente la sua natura liminare, anfibia. Naturalmente si tratta di una scelta del tutto legittima, a volte richiesta dagli stessi autori, ma che in qualche modo rappresenta la versione espositiva della secolare “querelle” sull’artisticità della fotografia, apparentemente superata almeno dai tempi dell’arte concettuale, per non parlare dell’abbattimento dei confini imposto dalla convergenza digitale.

Pittore astratto e fotografo di moda, ma anche regista, etnografo, street photographer, pubblicitario e molto altro, William Klein è uno di quegli autori che ha spiegato la fotografia anche ai suoi studiosi, ribadendo energicamente un concetto già chiarito dai modernisti americani degli anni venti, cioè che la fotografia è arte solo alle proprie condizioni. Una mostra al Mattatoio di Roma lo inserisce nella effervescente scena romana degli anni cinquanta (William Klein ROMA Plinio De Martiis): l’esposizione è un’occasione per far conoscere al pubblico un contesto culturale e sociale in cui convergevano, convivendo spontaneamente, arte e fotografia, poesia e impegno politico, e soprattutto molti protagonisti di diversa provenienza ma uniti da uno spirito comune. Sia pur costretto in angusti passe-partout che ne limitano la forza espressiva, il lavoro di Klein sulla capitale, sospesa in quegli anni tra ricostruzione e boom, tra miseria e indolenza, viene positivamente accostato quello di Plinio De Martiis, fotografo e animatore culturale, certamente tra i maggiori galleristi italiani.

De Martiis è comunista, gira l’Italia del dopoguerra con una Rolleicord per documentare le periferie e il Polesine per conto de “L’Unità”. Ma la politica non è certo un limite. All’inizio degli anni cinquanta, nasce il collettivo Fotografi Associati, con Franco Pinna, Caio Mario Garrubba, Nicola e Antonio Sansone, e Plinio De Martiis: è una cooperativa di fotografi, spiega Garrubba, “di tipo sovietista, dove ognuno lavorava quanto poteva e prendeva quello che gli serviva”. Il modello è la Magnum di Capa e Cartier-Bresson, che senza essere comunisti lavoravano con lo stesso spirito, poche regole senza lasciare indietro nessuno, e dimostravano la stessa capacità di dedicarsi al soggetto con impegno morale. La cooperativa duro poco, ma il lavoro non manca, soprattutto grazie alla stampa vicina al Pci, “L’Unità”, “Vie Nuove”, “Paese Sera”, “Noi Donne”; ma non solo: c’è “Il Mondo” di Mario Pannunzio, lontano da ogni chiesa e sempre alla ricerca di sguardi fotografici oggettivi e onirici insieme, gli unici capaci di raccontare l’Italia e i suoi abitanti.

Raramente c’è ideologia nello sguardo di questa generazione di fotografi, persino in chi la dichiara. C’è invece empatia e prossimità, stupore e ribellione, a volte denuncia. William Klein osserva Roma e i romani certo in modo diverso, si vede bene dal confronto con le foto di De Martiis: mentre queste trovano un equilibrio tra gravità documentaria e sospensione surrealista, quelle di Klein debordano dalle cornici, esplodono beffarde e rissose, provocano l’osservatore con soggetti sfocati e distorti. In quegli anni è una assoluta novità: se si esclude la armonica koinè internazionalista della Magnum, il positivo vigore di una società appagata espresso dai settimanali statunitensi, che nel dopoguerra esportano il modello occidentale anche attraverso la fotografia, inizia ora ad essere minacciato da uno sguardo inquieto e severo proprio sulla stessa realtà americana (è la tensione che informa molti film della Hollywood classica e che ne annuncia la crisi). La società di massa ha aperto enormi possibilità per i creatori di immagini e immaginari, e ora viene inevitabilmente sottoposta al loro sguardo critico, come è quello di Robert Frank o di Klein.

Lo sguardo classico e umanista della Leica (una macchina che Klein sa tuttavia reinventare) viene sostituito dai vertiginosi grandangoli e dai teleobiettivi analitici delle reflex giapponesi. Questi nuovi fotografi sono “autori”, e trovano non tanto sui rotocalchi ma soprattutto nel libro fotografico uno strumento autonomo di espressione: Life is Good & Good for You in New York: Trance Witness Revels esce nel 1956 ed è un atto di ribellione verso la città e anche verso la fotografia, visto che letteralmente ne aggredisce le convenzioni; le “anti-fotografie” di Klein rompono ogni equilibrio e premono per uscire dalla pagina, scandalizzano gli americani ma diventano un modello in Europa e anche in Italia: nel 1959 un giovane operatore cinematografico italiano, Mario Carrieri, pubblica l’aspro Milano, Italia, dimostrando di aver recepito il messaggio.

Ma anche a prescindere dall’influenza degli americani, in Italia stanno cambiando le esigenze. Lo sguardo neorealista, come anche quello umanista, con il passare degli anni e con i cambiamenti antropologici che la crescita economica stimola, rischiano di diventare retorica (soprattutto sui settimanali popolari).

Roma poi è un soggetto troppo attraente, imprigionata com’è nel cliché turistico-cardinalizio, ed esige una nuova visione: lo sa bene Federico Fellini, che immagina il suo imminente affresco romano tenendo a mente le immagini del giovane fotografo newyorkese. Klein fotografa Roma nel 1959, e ne registra il genius loci: “Roma è un film e Klein lo ha girato”, dirà Fellini. Anche Pasolini sa che il fotografo ha capito bene i romani e collabora al progetto di libro con testi suoi.

Klein e Pasolini cercano la stessa Roma: non c’è alcuna commiserazione verso le borgate o indulgenza verso i romani, il fotografo e il poeta preferiscono studiarne le “anime in assedio”. La strada romana è un teatro e i romani i suoi attori sempre in cerca di pubblico, “non c’è pudore e non c’è senso del peccato”, dice Pasolini facendo eco alle foto di Klein. Bisogna dire che la fotografia italiana è in ritardo sul cinema, sta scoprendo solo ora, alle soglie del boom, che il mondo si capisce non solo osservando gli esclusi ma anche la feroce antropologia delle classi dirigenti o dei suoi sodali della classe media. La Roma moderna è una città in mano ai turisti, veri padroni della sua grande bellezza, una bellezza a cui la borghesia si disinteressa. Nella splendida cornice della città storica, la modernità, cinica e indifferente, ha bisogno di nuovi sguardi.

Riferimenti bibliografici
W. Klein, Life is Good & Good for You in New York: Trance Witness Revels, Roto-Sadag, Geneve 1956.
Id., Rome, Feltrinelli, Milano 1959.
A. Russo, Storia culturale della fotografia italiana, Einaudi, Torino 2011.

William Klein, Plinio De Martiis, William Klein ROMA Plinio De Martiis, a cura di Daniela Lancioni e Alessandra Mauro, 9 novembre 2022 − 26 febbraio 2023, Mattatoio di Roma.

*In anteprima William Klein, Capellona + Tram (1956).

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