Nel 2014, Chad Stahelski con John Wick si preparava a lasciare un segno nell’industria cinematografica. Da una parte aprì alla rinascita dell’action movie negli Stati Uniti, che era giunto ad un punto di continua auto-emulazione: molti saranno gli epigoni di quella nuova chiarezza dell’azione, di quella fisicità coreografica – da Atomica Bionda (2017) a Io sono nessuno (2021) – che si susseguiranno negli anni. Dall’altra rilanciò la carriera attoriale di Keanu Reeves, dopo una serie di produzioni sottotraccia e un primo fallimentare tentativo di (ri)avvicinarsi all’action con Man of Tai Chi (2013). A distanza di tempo, però, il primo capitolo si presenta come una nota introduttiva, un semplice spunto di ciò che verrà edificato. L’universo che avremo modo di conoscere non sembra trovare qui le fondamenta, soltanto suggerite, accennate, senza coglierne ancora le potenzialità.

Tre anni più tardi sono le riprese delle luci della città d’apertura al secondo capitolo che avviano il processo di costruzione mitologica, il passaggio dalla cornice all’incipit, andando progressivamente ad inserirci – attraverso la scalatura dei piani – all’interno di un mondo, di uno spazio fatto di luci e asfalto riflettente che caratterizzano l’urbano, la city of light. Lampioni, finestre, scie di auto e una scena di La palla n° 13 (1924) di Buster Keaton proiettata sulla parete di un palazzo – le cui immagini si sincronizzano col suono di un inseguimento, di una sinfonia metropolitana – vanno a definire le basi per lo spazio del worldbuilding e le sue caratteristiche stilistiche. La camera scende ad altezza strada ed è il rosa di una vetrina di Victoria’s Secret ad illuminare l’angolo in cui sfrecciano i veicoli. Con le immagini di una realtà familiare ma trasfigurata, la transizione è completa: siamo finalmente dentro l’universo di John Wick.

Baba Jaga è tornato e noi con lui siamo chiamati ad esplorare quelle città, quelle strade, quegli edifici, in cui si muove a metà tra un rail shooter in cui procedere e un open world da esplorare. Non è un caso che il personaggio di Nessuno nel conclusivo John Wick 4 (2023) si avvalga di un effettivo almanacco, guida strategica per orientarsi all’interno del mondo ormai espanso, ricco di volti e simboli da decifrare, meravigliando il Marchese. Gli spunti precedenti vengono sfruttati per sviluppare un “qualcosa” di più ampio, un immaginario che si allarga oltre i limiti del genere e del cinema. Gettoni d’oro come valuta di scambio, consumabili come pegni e tessere, hub come il Continental, clan e società come la Ruska Roma o la Gran Tavola, ruoli come il conserge e l’harbinger, tradizioni come il duello e soprattutto regole – senza le quali “Vivremmo come animali” – che gestiscono il funzionamento e l’interazione con la stessa struttura, con la tessitura di elementi che concorrono a dare forma al wickverse.

La saga segue un’evoluzione progressiva in proporzione all’accrescere esponenziale della taglia di Wick, che passa da quattro milioni (nel primo) a quaranta (nell’ultimo), alimentando un gioco che punta al rilancio, al continuo superamento del limite raggiunto in precedenza. Il minutaggio aumenta, i morti aumentano, così come il tempo dedicato all’azione, l’utilizzo del digitale, la varietà degli spazi e i personaggi che li abitano. Tutto diventa eccesso e ancora superamento, in una reiterazione continua di quanto visto e assimilato. Vittima della tendenza anche il citazionismo – sia interno (dalla matita alla caduta dalle scale) che esterno (da Kill Bill a I guerrieri della notte, senza dimenticarsi dei jidai-geki o del poker bondiano) – che concepisce il quarto capitolo in quanto punto di arrivo, vortice postmoderno in cui tutto converge contribuendo a dare forma, sostanza, contenuto.

Nella costruzione della mitologia wickiana è infatti fondamentale l’influenza dei linguaggi mediali extra-cinematografici, primo fra tutti quello videoludico – impossibile non pensare alla partecipazione, con un ruolo tutt’altro che marginale, di Reeves in Cyberpunk 2077 – qui presente, per l’appunto, in misura decisamente maggiore rispetto ai precedenti: checkpoint da raggiungere, boss fight da superare ed equipaggiamenti da scegliere, oltre ai già citati elementi, concorrono nel creare l’idea di un MMORPG. Credito che, nella corsa contro il tempo finale, tra i tanti momenti espliciti si manifesta con l’adozione dello stesso linguaggio visivo del videogioco con visuale isometrica in due long take contigui: Wick imbraccia un fucile dentro un buio e fatiscente caseggiato, la camera si alza e fluttuando segue lo spostarsi tra le stanze mentre orde di nemici vengono eliminati esplodendo proiettili incendiari in un vero e proprio spettacolo pirotecnico.

Pur lucido sulla nuova intermedialità – che caratterizza ciò che Francesco Casetti chiamerebbe «Cinema Due» – il film non assimila gli altri media per trasformarsi in “altro”, ma per far evolvere il mezzo e la sua ricezione – come d’altronde ha sempre fatto – sulla base del progredire della tecnologia e del bagaglio culturale che caratterizza pubblico e spirito del tempo. Un mutamento che è parte costitutiva del cinema tout court fin dalle sue origini e del suo essere innanzitutto spettacolo, intrattenimento, affabulazione. Ed è proprio quel “senso di spettacolo”, quel greatest show on earth spielberghiano, che muove lo spirito di quest’ultimo capitolo. I reali protagonisti risultano essere così due elementi – o meglio, il risultato della loro unione – che testimoniano l’impulso di perseguire una chiara idea di esibizione tutta cinematografica: musica e coreografia diventano il cuore dell’opera e si fondono in modo imprescindibile tramite gli attribuiti del mezzo, al cui interno anche slapstick comedy e cinema di Hong Kong ritagliano uno spazio.

Le lunghe e interminabili peripezie in cui si cimenta (non solo) John Wick sembrano assumere il senso dello spettacolo dei grandi musical, soprattutto hollywoodiani. Le musiche – che mai fungono da semplice accompagnamento – e le coreografie viaggiano pari passo tra salti, piroette, acrobazie, nunchaku e pistole, creando quello che potremmo definire un action musical dove il rapporto con l’ambiente circostante, con la scenografia, diventa essenziale. Discoteca berlinese, rotonda dell’Arco del Trionfo, scalinate per giungere alla Basilica del Sacro Cuore, sono tutti luoghi funzionali alla performance, sfruttati nelle loro peculiarità.

Il corpo dello stuntman diventa allora il corpo di un nuovo ballerino, interessato a mostrare la spettacolarità delle movenze, del suo movimento in una precisa collocazione, invece dell’aspetto ferino o machista che per anni ha monopolizzato l’action movie statunitense. Una coreografia dell’azione, del combattimento, che guarda tanto al realismo delle tecniche quanto alla meraviglia del movimento e dell’interazione tra i corpi. I dialoghi perdono la loro funzionalità, la loro potenza, e vengono ridotti all’essenziale con lo scopo di unire le varie sessioni dello spettacolo. La morte della star, del primo ballerino – indipendentemente da quanti colpi, coltellate, cadute subisca – non è concepita prima della conclusione, prima del gran finale. Tutto, in sostanza, è piegato in favore della logica dello spettacolo, vero (s)oggetto del film.

La definizione dei corpi subisce inoltre l’essere frutto dell’immagine digitale, di quella virtualità rappresentata da un flusso di dati piuttosto che dalla luce impressionata nella pellicola, determinando un rinnovato grado di verosimiglianza. Il nuovo corpo digitale valica le logiche del nostro universo fenomenico e assume una nuova natura, ora reale ora virtuale, più vicina a Johnny Silverhand che a Johnny Utah. Siamo portati a credere a ciò che vediamo perché la struttura che racchiude e organizza la diegesi si mostra e viene percepita come artificiale, frutto di un codice macchina. La consistenza ontologica della realtà che traspare dalle immagini diventa dunque labile, manipolabile e menzognera. Ci costringe ad accoglierla, ad accettarla per ciò che appare, stingendo un tacito accordo con quel mondo digitale fatto di figure, luci e corpi simili a ciò che raffigurano, ma che nel profondo si rivelano nient’altro che simulacri virtuali.

Questa lucidità sul contemporaneo di Stahelski passa anche attraverso il tentativo di costruire un wickverse che viva oltre i confini del protagonista. Aldilà degli spin-off in cantiere, Ballerina e The Continental, l’espansione del roster di personaggi introdotti permette di allargare lo sguardo. Tutte le strade connesse a John Wick vengono chiuse trovando una piena autosufficienza interna ed evitando fastidiose questioni irrisolte, ma al tempo stesso lasciando aperte una serie di possibilità, di sviluppi futuri percorribili per il franchise. Fra tutti, la figura di Akira – interpretata da Rina Sawayama, per tornare all’importanza della musica – si promuove vera detentrice del passaggio di testimone vendicativo, che, da tradizione marveliana, nei post-credit rilancia le prospettive forte di quel “Io ti aspetterò”. Sentimento, la vendetta, che sembra muovere le pulsioni delle cities of light – Osaka, Berlino, New York – come sorta di generatore di storie pronto ad avviare un nuovo arco narrativo. Uno sviluppo che (forse) non vedrà più John Wick, ma che sicuramente non potrà essere privo di una Baba Jaga.

John Wick 4. Regia: Chad Stahelski; sceneggiatura: Michael Finch, Shay Hatten; fotografia: Dan Laustsen; montaggio: Nathan Orloff; musiche: Tyler Bates, Joel J. Richard; interpreti: Keanu Reeves, Donnie Yen, Bill Skarsgård, Rina Sawayama, Ian McShane, Laurence Fishburne, Lance Reddick, Clancy Brown, Hiroyuki Sanada, Shamier Anderson, Scott Adkins; produzione: Lionsgate, Summit Entertainment, Thunder Road Films, 87Eleven Productions; origine: Stati Uniti d’America; durata: 170’; anno: 2023.

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