Ho difficoltà a parlare della mia pittura,
poiché nasce sempre in uno stato allucinatorio,
suscitato da un contraccolpo qualsiasi,
oggettivo o soggettivo che sia,

e di cui non sono in alcun modo artefice.
Joan Miró

Un’apparente casualità si manifesta nella pittura di Joan Miró. Ma più che di casualità, si tratta di linguaggio, un linguaggio dei segni, che è anche il titolo dell’esposizione ospitata a Napoli al PAN (Palazzo delle Arti) dal 25 settembre 2019 al 23 febbraio 2020. «Il linguaggio pittorico composto da Miró è l’alfabeto di un eterno inizio, ma costruito ritrovandone ogni volta, con studio e fatica, le tracce» (Miró 2008, p. 88).

L’esposizione offre, infatti, l’opportunità di confrontarsi con quello che Raymond Queneau nel 1949 definì miroglifico, ritenendo il miró «una lingua da imparare a leggere e di cui si può redigere un dizionario» (Migliore 2011, p. 5). Il percorso si snoda tra 80 opere (quadri, disegni, sculture, collage, arazzi) appartenenti alla collezione di proprietà dello stato portoghese, che ripercorrono buona parte della carriera dell’artista dal 1924 al 1981. Una collezione, peraltro, interessante in sé in quanto messa insieme dal mercante d’arte Pierre Matisse, figlio del pittore Henri, che rischiò di essere smembrata con la vendita all’asta dell’intera raccolta, scongiurata grazie all’intervento del governo portoghese che l’ha resa patrimonio pubblico affidandola al Museo Serralves di Porto.

Le prime opere della collezione risalgono al 1924, anno del Primo manifesto del Surrealismo, quando Miró comincia a frequentare il gruppo conoscendo Breton, Éluard, e si avvicina alla poesia tentando anche di tradurla in immagini con le pitture-poema. Poesia che vorrà trasformare in uno stile di vita – come si legge nei suoi Appunti di lavoro, 1940-1941 – «vivere con la dignità di un poeta» o in un compito: «Che vi sia in queste tele un grande “umorismo e una grande poesia”, come in Jarry» (Miró 2008, pp. 24 e 25). Poesia ma anche assemblaggi poetici nel restituire «sempre la strada perduta ad un oggetto insignificante della vita quotidiana, convertendolo in materiale per la scultura e per le creazioni», come ricorda il nipote Joan Punyet in un’intervista radiofonica. Ma è soprattutto l’inizio del percorso sottrattivo, in cui le immagini si fanno sempre più essenziali, cominciano a trasformarsi in segni, a definire le prime lettere del miró.

La mostra è organizzata in sezioni tematiche, individuate dal Robert Lubar Messeri e da Francesca Villanti, che attraversano trasversalmente gli anni della produzione artistica dal 1924 al 1981. Dai titoli delle sezioni sembrerebbe un allestimento incentrato sulla cronologia della presenza della figura o del segno, sul loro nascondersi e disvelarsi per dirla con Marco Alessandrini, alternarsi, cedersi il passo: la prima sezione si intitola Il linguaggio dei segni (1924-1339), segue La figura nella rappresentazione (1929-1981), La figura nello sfondo (1935-1981), poi Il collage e l’oggetto (1933-1975), I dipinti selvaggi (1934-1937), L’elasticità del segno (1937-1976), Calligrafia e astrazione gestuale (1940-1960), infine, La materialità del segno e Le tele bruciate e la morte del segno (1973-1974).

Osservando le date delle opere inserite nelle sezioni appare chiaro che non esiste una data che segni la definitiva eliminazione della figura, ma solo circoli in cui la figura acquista maggiore o minore intensità (nella rappresentazione o nello sfondo), si riduce a volte a un segno, che va e che viene, e si conclude temporaneamente nella sua morte, per ricominciare poi a presentarsi determinando quel processo di rigenerazione (Francis Ponge) attraverso cui avviene la reinvenzione del linguaggio.

«Ne nasce una tessitura composita, uno sfondo magnetico dove poi si posa una pittura che insieme è scrittura, a tal punto in essa le figure ricorrono in forma di schema, di astrazione, di segno. Ed ecco quindi nella sua opera stagliarsi elementi naturali: alberi di carrubo e di eucalipto, insetti, lumache e serpenti, poi uccelli e infine esseri umani, soprattutto donne, tutti riuniti a comporre un discorso perché ridotti alla loro nascosta struttura, tradotti in un misterioso alfabeto che non enuncia e non dice, ma disvela, rende evidente. Un alfabeto di immagini che hanno ritmo e musica, e movimento, come fossero una danza, e però somigliano anche a parole scritte o pronunciate, soprattutto parole di poesia» (Miró 2008, p. 84). Danza richiamata anche in apertura della prima sezione Il linguaggio dei segni: Senza titolo (Ballerina) – (matita di grafite, pastello e acquerello su carta) è un’opera del 1924 nella quale riprende un tema a lui caro, che attraverserà tutta la sua produzione, dove convivono linee, segni, immagini, ma non c’è astrazione, in quanto «non si può essere surrealisti senza impegnarsi in qualche modo in una rappresentazione» (De Micheli 2017, p. 190).

In Miró insieme al surrealismo si dà anche lo sfuggire ad ogni possibile costrizione in una corrente artistica, un’unicità che si è delineata in una febbrile sperimentazione accompagnata da continue annotazioni di idee, pensieri, suggestioni, in costante emergenza creativa: «Che le opere siano concepite da un’anima di fuoco, ma realizzate con freddezza clinica», «fondere il metallo dei tubetti di colore vuoti che conservo, e iniziare dalle forme così ottenute»,  e ancora «tenere da parte un foglio di carta bianco per provarvi le matite dei diversi numeri, e poi schiacciare i frammenti ottenuti appuntendole, e iniziare da questo» (Miró 2008, pp. 23, 29, 33). Casualità del gesto artistico ma anche definizione di prassi.

Leggendo i suoi appunti di lavoro ci si imbatte spesso in ammonimenti rivolti a se stesso, in un invito alla continua messa alla prova, a «provocare incidenti», con la sperimentazione delle tecniche più diverse, dalla scultura («campo in cui creerò un mondo veramente fantasmagorico, di mostri viventi – ciò che faccio in pittura è più convenzionale») all’acquaforte, la litografia nella quale auspicherà di «ottenere meravigliose sorprese», la xilografia, l’incisione su linoleum («quando ricorro a strumenti improvvisi, servirmi di quelli utilizzati da mio padre nei lavori di orologeria, e che sono a Montroig»), la ceramica, i vetri colorati, i monotipi, la pirografia, la miscellanea, nonché svariati esperimenti con la pittura, per nuovi incontri tra i materiali e l’atto creativo. Tutto questo è visibile nell’esposizione del PAN.

La seconda e la terza sezione sono dedicate alla figura e al suo rapporto con lo sfondo, passaggio sostanziale che evidenzia la ricerca dedicata alla figura nella rappresentazione e la sua «tendenza alla spoliazione, alla semplificazione [che] si è esercitata in tre ambiti: il modellato, i colori e la raffigurazione dei personaggi» (Miró 2008, p. 62). Come ricordato nelle presentazioni introduttive alle sezioni, all’«inizio degli anni Venti la figura costituisce l’elemento essenziale nelle indagini di Miró. […] Con il suo operare Miró sostituisce somiglianza e similitudine con un nuovo ordine descrittivo in cui il segno funziona da surrogato di qualcosa che non è più raffigurato».

Emblematica di questa fase è la rilettura de La Fornarina di Raffaello del 1929, appartenente alla serie dei Ritratti immaginari, che viene sottoposta ad un processo anti-realistico e di semplificazione, ma anche di assorbimento del chiaroscuro che anticipa la negazione da parte di Miró dell’illusionismo prospettico rinascimentale. Nella sezione successiva si assiste, al contrario, al tentativo di protezione della «figura nello spazio, per bloccarla sulla superficie», con l’adozione di «un’armatura attraverso la quale l’artista mantiene le forme al proprio posto». Eppure pochi anni dopo la questione cambia: l’artista mira alla fusione tra struttura e immagine; per sfuggire all’immobilità che lo impressiona, fa irrompere, come lui stesso ricorda evocando Kant, l’infinito nel finito.

Tra le due fasi, infatti, si collocano le riflessioni sullo spazio e sulle forme custodite nello scritto Lavoro come un giardiniere del 1959:

Nel 1935, nei miei quadri lo spazio e le forme erano ancora modellati. C’era ancora il chiaroscuro nella mia pittura. Ma a poco a poco tutto ciò è scomparso. Intorno al 1940 il modellato ed il chiaroscuro furono completamente eliminati. Una forma modellata è meno sorprendente di una forma piatta. Il modellato impedisce l’emozione violenta e limita il movimento alla profondità visuale. Senza modellato né chiaroscuro la profondità non ha limiti: il movimento può estendersi all’infinito (Miró 2008, p. 62).

Iniziano poi le sperimentazioni che prevedono l’inserimento di materiali extra-pittorici, elementi di realtà, come in Chien I del 1975 dove il supporto per la rappresentazione stilizzata del cane è un vassoio per dolci, le cui zigrinature laterali favoriscono la rappresentazione delle dita di una delle zampe. La sezione I dipinti selvaggi caratterizza una fase molto significativa della vita dell’artista. Sono gli anni della guerra civile, tra il 1934 e il 1937, quando introduce un nuovo materiale dalla superficie particolarmente ruvida, la masonite, sulla quale il colore diventa predominante fino ad oltrepassare i limiti dei propri contorni. Una linea di continuità con quanto realizzerà anche ne Le Chant des oiseaux à l’automne, del settembre del 1937, olio su celotex – altro materiale industriale –, ma qui il segno comincia a definirsi come forma autonoma, fino alla splendida manifestazione di Éscriture sur fond rouge del 1960 che anticipa i pittogrammi della fase calligrafica.

La calligrafia irrompe, infatti, nella vita di Miró dopo i due viaggi in Giappone realizzati nel 1966 e nel 1969. Viaggi che ebbero un’influenza fondamentale principalmente nella sua vita al punto da far sostenere al nipote l’esistenza di un Miró pre e post Giappone. La filosofia buddista zen, e in particolare la sua applicazione dal calligrafo buddista che riesce a scrivere liberando la mano dal raziocinio della mente, verrà ricondotta da Miró alla pratica surrealista della scrittura automatica, dello scrivere senza pensare, e quindi al dipingere senza pensare, per consentire al pittogramma di divenire figura.

Giungiamo così all’ultima sezione, alle sperimentazioni esposte ed efficacemente illustrate dal commuovente film di Catala Roca. Un anziano entusiasta Miró, in collaborazione con il giovane tessitore Josep Royo, è alle prese con un’ulteriore evoluzione del segno che qui acquista consistenza, diviene materia che invade la tela e le opere: i Sobreteixims e le cinque tele bruciate, realizzate tra il 1972 e il 1973 per una retrospettiva da realizzarsi a Grand Palais di Parigi come omaggio della città in occasione del suo compleanno. Si conferma il progetto di evitare il «pregiudizio di specializzarsi in una sola tecnica», ma anche la ricerca di nuovi stimoli che Miró ritrova anche accompagnandosi ad artisti molto più giovani di lui. I limiti del volume e della profondità non sono più oggetto di rappresentazione; sono diventati materia e profondità che sfondano la tela. In Toile brùlée III anche l’ombra diventa materia, trapassa il foro e si fissa sulla parete, diventa eterna. Miró doveva ammazzare Miró per continuare a interrogarsi ogni giorno e mantenersi in vita: «Nei miei dipinti vi è una specie di circolazione sanguigna. Se una forma viene spostata, la circolazione si ferma, l’equilibrio è rotto» (Miró 2008, p. 59).

Riferimenti bibliografici
S. Agosti, Il testo visivo. Forme e invenzioni della realtà da Cézanne a Morandi a Klee, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006.
M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli Editore, Milano 2017.
T. Migliore, Miroglifici. Figura e scrittura in Joan Miró, et. al./Edizioni, Milano 2011.
J. Miró, M. Alessandrini, a cura di, Lavoro come giardiniere e altri scritti, Abscondita, Milano 2008.
La radio tiene ojos, Joan Miró en las palabras de su nieto, Joan Punyet. 

*In anteprima e in copertina un dettaglio della locandina della mostra. 

Tags     arte, Joan Miró, pittura
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