Il vostro grido vuole dire un’altra cosa. A ben guardare, esso è ancora un grido d’amore.
Roland Barthes
I. Ekfrasis
L’ultimo episodio della serie Netflix Love, Death & Robots, prodotta tra gli altri da David Fincher ed interamente realizzata in Motion capture e CGI, è un’allegoria duplice sulla brutalità dell’amore e sulla trasformazione antropica del sistema-terra. Catapultati su una linea temporale alternativa seguiamo un gruppo di conquistadores che costeggiano un lago, facendosi spazio tra la vegetazione fittissima. Uno di loro, un cavaliere sordo – ce ne accorgiamo dal clangore ovattato delle armature nelle prime inquadrature –, si accovaccia e si ritrova tra le mani una scheggia d’oro. La studia, la tasta, se la mette in bocca, quando all’improvviso dal centro del lago emerge una creatura femminile tutta avvolta in oro e gioielli che prende a danzare a pelo d’acqua, sublime, come Cristo e Salomé riuniti nello stesso corpo. Gli uomini la guardano estasiati, finché dalle sue viscere non erompe l’urlo della morte: presi da furia estatica, sotto l’effetto di sferzate ultrasoniche che richiamano il prototipo omerico della Sirena – seppur qui integralmente antropomorfa –, i soldati corrono, saltano, ridono e si dilaniano a vicenda, avanzando al contempo verso il centro del lago. In questo doppio movimento suicida, l’esercito annienta sé stesso.
Immune al potere persecutorio delle onde – mirabile, dal punto di vista del montaggio, l’alternanza repentina tra il fracasso dell’eccidio e il silenzio desertico che abita la mente del protagonista –, il soldato riesce a sfuggire alla carneficina e si addormenta sfinito sulle sponde del lago. Durante la notte, incuriosita, la Sirena volteggia tra gli alberi e gli si avvicina. Si stende accanto a lui, lo accarezza e lo stringe a sé. È un atto di tenerezza inaspettato, che prelude a quanto accade il mattino seguente: dopo una breve rincorsa attraverso ninfee e scrosci d’acqua le figure si toccano, le bocche mute si avvicinano. Al momento del bacio però, con i suoi denti aguzzi la sirena morde e maciulla le fauci del cavaliere, che tuttavia non si allontana.
I volti sono ormai uniti in un impasto sanguinolento, i corpi già stesi l’uno sull’altro quando all’improvviso, come tornato in sé stesso, l’uomo tramortisce la Sirena con un colpo, facendole perdere i sensi. Segue un delirio di macabra violenza in cui è impossibile discernere tra pulsione vendicativa, delusione amorosa e volgare avidità: con gli occhi sbarrati e un sorriso sadico disegnato sul volto, l’uomo strappa via tutto l’oro e i gioielli dal corpo della sirena, riducendola ad un fascio di carne viva (scopriamo così che l’oro e i gioielli non sono un semplice “rivestimento”, come un guanto che avvolge una mano, ma “patina intessuta nelle viscere”, direbbe Balzac, la pelle stessa).
Terminata la razzia, il cavaliere rigetta in acqua il corpo inerte della sirena, raccoglie tutto l’oro in un sacco e si avvia a piedi verso la libertà. Trasportata a valle dal flusso però, a contatto con il suo ambiente, la divinità riacquista i sensi. L’acqua si tinge di rosso, si gonfia e si agita come una cosa vivente. Quando l’uomo si riaffaccia sullo specchio d’acqua, sia per vedere meglio che per abbeverarsi, miracolosamente il suo udito viene ripristinato. Quello che intuitivamente appare come un evento salvifico però, si rivela immediatamente come la peggiore delle condanne: in piedi di fronte a lui, grondante di vergogna e dolore, la sirena si abbandona al suo canto inesorabile. Esso però non ha più nulla del dinamismo persecutorio di prima. La violenza ritmica ha lasciato il posto ad un lamento quasi funebre, accompagnato da gesti lenti delle mani e contrazioni del corpo sofferente. Avendo perso la sua immunità, il cavaliere non ha più difese: sospinto da una forza invisibile, con la grazia di chi abbandona ogni resistenza, egli si mette a danzare a pelo d’acqua in una serie di volute e piroette armoniose. Messa a nudo e quasi “ridotta all’osso”, la Sirena lo guardia estasiata, con un misto di rabbia e incredula tenerezza: tutto ciò che voleva, senza saperlo, era forse smettere di essere sola. La danza del cavaliere, tuttavia, prefigura una comunione destinata a rimanere un sogno: il cavaliere annega, come innumerevoli uomini prima di lui.
II. Strategie fallimentari
Attingendo a piene mani dall’immaginario topologico della mitologia occidentale e sudamericana – sono evidenti i riferimenti, oltre che all’Odissea, al mito di Diana e Atteone, alle vicende bibliche di Salomé, all’Orlando Furioso e soprattutto alle antiche leggende amazzoniche Tupi-Guarani (ci torneremo in seguito) -, Jibaro mette a nudo l’Amore in tutta la sua sublime “piccolezza”. Ammantati di innocenza animale, in un misto penoso di fatua impulsività e strategie fallimentari, sia il cavaliere che la Sirena cercano di portare via all’altro/a ciò che egli o ella ha di più prezioso (l’oro-pelle per la sirena, la vita e la libertà per il cavaliere). Nessuno dei due, però, si accorge di essere poco più di una maschera in balìa di una forza obliqua che agisce infinitamente più in alto e più in basso rispetto a dove essi si trovano, ovvero in una dimensione in cui iniziativa personale, capacità raziocinante e pulsione pura non hanno voce in capitolo (questi sono, se mai, i sintomi, ovvero i segni rivelatori che questa forza lascia sulle sue vittime). Per dirla con Barthes, le rispettive strategie non sono altro che “impazienze”: «In esse non vi è alcuna idea di guadagno finale: il Dispendio è aperto all’infinito, la forza deriva, senza nessuna finalità».
A ben vedere, più che un sentimento vero e proprio, a farli convergere l’una verso l’altro è il peso tragico di una singolarità inesprimibile: così come la bulimia eminentemente visiva del cavaliere non è che un rovescio della sua condizione di sordo, come se lo scintillio brulicante dell’oro potesse ripagarlo di ciò che la Natura non gli ha concesso, anche la condanna della divinità – agente naturale per eccellenza – fa tutt’uno con il dispositivo simbiotico che regge la sua stessa esistenza: in virtù di un bene assoluto che coincide con l’(auto)preservazione di un ambiente, la sua pena perpetua sta nel respingere con le sue grida tutto ciò che chiama a sé, nell’ uccidere tutto ciò che attrae. Se infatti in un primo momento l’incontro con il soldato – l’unico in grado di resisterle, e dunque di spezzare l’incantesimo solipsistico che la incatena – sembra prefigurare un qualche genere di salvezza, in realtà esso, rivelando la divinità a sé stessa e dunque umanizzandola, finisce per condannarla ad un supplizio ancora peggiore: ormai conscia del suo desiderio, a causa della sua natura ibrida, la sirena si trova impossibilitata a seguirlo fino in fondo. Eppure, è proprio in questa frattura tra realtà e desiderio, tra volontà e potenza, che fiorisce il “germe della bellezza” (Bataille): il misto di meraviglia, fatalità e innocenza disegnato sul suo volto mentre il cavaliere danza estasiato e ridicolo di fronte a lei è una scintilla che non “chiude” il rapporto, ma lo illumina e lo apre in tutte le direzioni. Quel ballo che anticipa la morte, e che rende simili due estranei per una manciata d’istanti, incarna l’Amore in tutta la sua brutalità. È solo nel disastro àfono dell’abbandono, sembra dirci Mielgo, nell’estenuante altalena tra attrazione e repulsione, offesa e perdono, richiamo e respingimento, che ognuno di noi si rivela a sé stesso come stella danzante.
III. L’ultimo ballo dell’Antropocene
A questa lettura però, rivendicata dall’autore stesso quando in un’intervista ha dichiarato di aver voluto mettere in scena “la relazione più tossica che si possa mai immaginare”, è possibile forse affiancarne anche un’altra, di carattere più marcatamente ecologico ed antispecista, che vede il cavaliere e la Sirena come personificazioni rispettive del genere umano e del sistema-terra. Lo stesso titolo del resto, in virtù della sua etimologia ambigua, sembra rimandare ad una riflessione – sia nel senso di speculazione che in quello di rispecchiamento – sul tema dello sfruttamento antropico delle risorse naturali e del suo rovescio, l’estinzione del genere umano.
Se da una parte infatti la presenza del sostantivo “jíbaro” è attestata nello spagnolo di Porto Rico, dove indica il “popolo della foresta”, ovvero la classe popolare contadina che vive a contatto diretto con la natura e nel suo pieno rispetto, dall’altra in America del Sud “Jíbaros” (o “Jívaros”) è un termine dispregiativo con il quale ci si riferisce agli Shuar, gruppo etnico dell’Amazzonia collocabile nell’area tra Perù ed Ecuador. Ora, pur essendosi guadagnati l’appellativo di “guardiani dell’Amazzonia” in virtù della loro strenua lotta contro la modernizzazione del territorio – essi non si piegarono né all’impero Inca né ai conquistadores spagnoli, sul cui modello sembra essere stato pensato l’esercito a guida monastica che ritroviamo nella rielaborazione di Mielgo –, gli Shuar sono per molti versi associabili ai Tupi, etnia che in era precoloniale occupava l’area nord-ovest del Brasile e che praticava diversi rituali cruenti su vittime sacrificali e sui corpi dei nemici, tra cui il cannibalismo (Clastres 2004). Ed è proprio dalla mitologia Tupi, com’è stato notato, che sembra derivare la Sirena che appare nel corto animato. Le sue caratteristiche infatti ricalcano in tutto e per tutto la figura di Uiara (o Yara), divinità immortale dei fiumi amazzoni tramutata in ibrido antropomorfo (donna-pesce) dopo la brusca morte per annegamento: la sua bellezza e il suo canto generano un irresistibile richiamo d’amore e morte, preludio dell’assoluta perdita di senno dei sedotti, destinati infine a perdere anch’essi la vita annegando.
Alla luce di tutto questo allora, e nell’ottica di un dispositivo allegorico che fa dello scambio (di mosse, fluidi, letture) la sua cifra tematica e stilistica principale, appare evidente che il termine “Jibaro” che dà il titolo all’episodio può essere riferito tanto al soldato – “barbaro” e “selvaggio” per eccellenza –, quanto alla Sirena, o meglio all’ecosistema che essa rappresenta, sia in virtù della sua natura di spirito protettore della foresta che della sua crudele e cannibalistica potenza omicida. Ed è proprio in questa interscambiabilità, in questo rilancio continuo di forme, ruoli e significati, che credo risieda il pregio principale del lavoro di Mielgo. Più che un racconto – come se ne sono visti molti negli ultimi anni – dalla morale scontata sull’azione univoca di un soggetto-sfruttatore (l’Uomo) su un oggetto-sfruttato (l’ambiente), Jibaro appare piuttosto come un tentativo di attivare una dialettica del vivente – genuinamente anti-antropocentrica – in grado di superare l’impasse del concetto troppo umano e tipicamente occidentale di colpa: non è colpa della Sirena-ambiente se per preservarsi ha bisogno di dilaniare i corpi di un gruppo di soldati che si sono avvicinati per caso alle sue sponde, così come non è colpa del cavaliere sordo se – in linea con la sua natura avida e violenta, a sua volta frutto di una disabilità originaria – alla vista dell’oro che ricopre la Sirena che ha sterminato i suoi compagni egli senta l’impulso di appropriarsene. E soprattutto, non è colpa di nessuno dei due se entrambi si sentono reciprocamente attratti in un vortice di desiderio e violenza che li condurrà all’annientamento finale.
Sotto le spoglie velate dell’allegoria, Jibaro ci lascia dunque intravedere una possibilità inedita: pensare il rapporto tra il genere umano e sistema-terra per quello che è, ovvero come un interscambio necessario di colpi e tenerezze reciproci che ad un certo punto, in virtù dello sviluppo intrinseco alla natura, si è fatto insostenibile. In definitiva, come una storia d’amore. Ciò non vuol dire, beninteso, deresponsabilizzarci, né tantomeno abbandonarsi al disfattismo post-nichilista di chi crede che i giochi siano già fatti: così come la fine di una relazione diventata tossica – il disfacimento presuppone sempre un cambiamento metastatico degli equilibri, il passaggio progressivo da una situazione di felicità, o quantomeno di funzionalità originaria ad un corrispettivo di irrespirabilità (de)generato nel tempo –, non determina la morte dei suoi attori, ma anzi li riporta in vita, allo stesso modo accettare l’estinzione del genere umano così come lo conosciamo non vuol dire accettare passivamente l’annientamento, o addirittura augurarselo. Al contrario, essere in grado di vedere la bellezza della fine, come la sirena di fronte all’ultimo ballo del cavaliere, e di conseguenza la necessità dell’intero percorso fino a questo punto, è forse l’unico vero modo di “restare a contatto con il problema”, per dirla con Haraway, ovvero, al di là di ogni ingenua fiducia nell’onnipotenza della tecnologia e di ogni stupido accelerazionismo, di immaginare le basi un nuovo modello di sviluppo capace di lavorare e giocare in favore di un mondo che rinasce generando parentele di natura imprevista con i poteri biodiversi della terra.
Trasformare la responsabilità intesa come senso di colpa in “responso-abilità” intesa come con-divenire multispecie e rendere-capaci – noi stessi e gli altri – di (ri)trovare la creatività nell’improvvisazione, il coinvolgimento nella comunità, e soprattutto la rinascita nel pensiero. Perché solo sottraendoci – anche con l’arte e per l’arte – ai grovigli autoindulgenti e autoappaganti che ci spingono a rimodulare perennemente il nostro ruolo di soggetti socio-economici in crisi (ma mai ad essere “davvero presenti nella catastrofe che avanza”), sarà forse possibile rinunciare ai simulacri dell’Antropocene per (dis)appropriarci del mondo e di noi stessi come soggetti simpoietici. Da qui – più che dall’autoflagellazione moralista asservita al mercato, di cui Netflix, bisogna dirlo, è parte integrante –, è forse necessario ripartire se vogliamo evitare di finire, dopo l’ultimo ballo, come il cavaliere di Jibaro in fondo all’abisso.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2014.
H. Clastres, J. Brovender Grenez, The Land-Without-Evil: Tupi-Guarani Prophetism, University of Illinois, Campaign 2004.
D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Ed., Roma 2019.
M. Serres, Il contratto naturale, Feltrinelli, Milano 2019.
Jibaro. Ideatore: Alberto Mielgo; interpreti: Girvan ‘Swirv’ Bramble; produzione: Blur Studio; origine: USA; anno: 2022.