Cosa è un’icona cinematografica? Si domanda Maurizio Grande nel 1980. Non un’immagine materiale proiettata sullo schermo, ma ciò che fa di quell’immagine un segno iconico peculiare, proprio soltanto del cinema. In un articolo, intitolato L’Icona Cinematografica, Grande si interroga circa i tratti specifici di quest’ultima, in virtù dei quali essa può riprodurre delle condizioni percettive sperimentate di fronte alla “realtà materiale”; ma, allo stesso tempo, analizza minuziosamente anche i tratti per i quali l’icona cinematografica viene interpretata come segno, sulla base di un riferimento semiotico. Ne conclude che essa non si limita solo a «rappresentare» il reale, ma riesce a far emergere anche la sua «consistenza semiotica»: l’icona cinematografica emana un «senso di realtà» che sorregge «un effettivo mondo al presente in quanto mondo schermico in sé compiuto, autosufficiente e dotato di una sua propria realtà» (Grande 1980, p. 145).
Pur partendo da presupposti semiotici, le riflessioni sviluppate nell’articolo non appaiono rigide e schematiche, ma fluide e dinamiche, senza ridursi a griglie teoriche e, al contempo, senza mai perdere la loro chiarezza concettuale. Questo perché nate da un corpo a corpo con un oggetto empirico e concreto, il cinema di Jean Vigo, che riesce a scardinarle, intensificarle e mescolarle con le forze della vita. È tra le pagine della monografia dedicata a Vigo della collana editoriale Castoro Cinema, datata 1979 e precedente di un solo anno l’articolo L’Icona Cinematografica, che Grande “libera” una lucida visione del mondo della quale i film del cineasta si fanno intercessori. Come ricorda De Gaetano, in uno scritto dedicato allo studioso:
Per Maurizio Grande, la scrittura non è mai stata esercizio e pratica del sapere, ma tentativo di risposta a forze che hanno attraversato una vita ed un pensiero. Se la (grande) scrittura è sempre apertura di una “linea di vita”, questo accade perché risponde ad un urto, è effetto di un incontro, con un’opera, un tema, un oggetto teorico, ma anche, e forse soprattutto, con un corpo, un’anima, un luogo (1999, p. 8).
Le opere di Vigo, dunque, sono un oggetto d’analisi formidabile perché, non illudendosi mai di restituire ingenuamente la “verità del reale” così come è, mirano invece alla creazione di un rapporto costruttivo con la realtà e con le forme di vita che la popolano, indagandola con la «spietatezza di uno sguardo critico inalterabile» (Grande 2004, pp. 27-28). In questo senso, prima d’essere un “oggetto estetico”, l’opera di Vigo è «un progetto critico» (ivi, p. 31) che fa capo all’idea di un cinema sociale (Vigo 1953) o di cinema come pratica: il dispositivo cinematografico riesce a decostruire il tessuto sociale, ad operare all’interno dell’umano senza cadere nella trappola di un presunto “realismo” integrale.
Non importa se si tratti di cinema di finzione o documentario – lo dimostrano le quattro opere di Vigo, delle quali due “documentarie” e due di “finzione” – ma che accolga ciò che Jean-Louis Comolli descrive come il «rischio del reale» (2006, p. 89): indipendentemente dai finanziamenti e dalle possibilità di distribuzione (indipendenza molto cara al regista che, secondo Grande, non è stato «mai posseduto dal piano astratto del professionismo»), il film deve aprirsi sul mondo, entrare in contatto con le cose, essere trafitto e trasportato da esse. Conta, perciò, il gesto filmico di riscrittura «degli avvenimenti, delle situazioni, dei fatti, delle relazioni in forma di racconto, riscrivere il mondo, quindi, ma dal punto di vista di un soggetto, scrittura qui e ora, racconto precario e frammentario» (ivi, p. 93).
La salvaguardia di un punto di vista è al centro dell’analisi che Maurizio Grande fa del cinema del regista francese, ed è quello che, per esempio, fa essere À propos de Nice (1930) un «documentario sociale» (Grande 2004, p. 34) e non un mero cinegiornale di attualità. A parere di Grande, difatti, si ha sempre a che fare con un «doppio aspetto del reale» (ivi, p. 35), perché qualunque sua esperienza è il risultato di un’operazione stratificata e molteplice, che si può definire di «costituzione del mondo» (ibidem) da parte del soggetto: quest’ultimo, tramite i propri strumenti culturali, concettuali e materiali, guarda e dà forma al suo reale.
La Nizza filmata da Vigo è «scorciata dal punto di vista del cinema» (ivi, p. 34) che, come punto di osservazione, organizza, ordina e valuta l’immagine “svuotata” della città, pronta ad essere riempita dalle visioni dell’autore. Tra il lusso e il divertissement del carnevale, dei motoscafi, delle palme e delle luminose facciate degli alberghi si celano le spie della miseria materiale e morale che subdolamente pervade la città e che Vigo sorprende all’azione: gli spazzini che ripuliscono la spiaggia deturpata dai rifiuti, la negazione dell’elemosina alla zingara, i corpi grottescamente abbigliati e truccati, i quartieri poveri della città sono gli elementi dai quali si irradia un’insistente denuncia anarchica che sfocia poi, con le parole di Grande, nella costruzione di un’«antropologia sociale» (ivi, p. 35).
È la presenza dello sguardo dell’autore, pertanto, ad assumersi una responsabilità critico-teorica, che si rispecchia, fino a coincidere col tono stilistico impiegato: la forma cinematografica di À propos de Nice, «in una aperta e dichiarata manipolazione delle angolazioni e dei punti di vista, [trasforma] le riprese in un testo che coincide singolarmente con il suo messaggio» (ivi, p. 110). L’anno dopo la stesura della monografia su Vigo, nell’articolo L’Icona Cinematografica, Grande avrebbe detto, riprendendo le intuizioni evocate dall’opera del cineasta francese, che si tratta di «una attività semiotica di trasformazione del reale-naturale e del reale-sociale in un costrutto iconico», per la quale «quanto “passa” nell’immagine senza che si veda sulla sua superficie è proprio una maniera peculiare di manipolare le cose, di organizzare i dati reali in vista della significazione» (Grande 1980, p. 146). Il critico rintraccia la presenza viva del punto di vista “cinematografico” di Vigo, questa volta caratterizzato da una forte matrice autobiografica, anche nel successivo Zéro de conduite (1933).
Le memorie del regista – che vive un’infanzia e un’adolescenza instabili, segnate dai continui spostamenti e da cambi di nome per non essere riconosciuto come il figlio dell’anarchico Miguel Almereyda – si universalizzano, raddoppiandosi negli occhi dei collegiali di Zéro de conduite. Il punto di vista è dall’interno, quello di Vigo bambino, quello «esclusivo e tendenzioso» (Grande 2004, p. 48) del fanciullo che si scontra contro l’aridità del mondo adulto: l’obiettivo è dar senso alla memoria, riattualizzarla e oggettivarla attraverso il linguaggio del cinema e l’invenzione estetica. Secondo Grande, il senso della memoria, sfuggendo all’ordinamento diacronico del tempo, si forma mediante delle ellissi che vengono sostituite alla norma espositiva e alla ridondanza dei raccordi espliciti: il film è così sottratto «alla riproduzione narrativa dei fatti e dei significati per [essere] consegnato all’immagine cinematografica come dominante selezionata e come procedura di connotazione» (ivi, p. 59).
L’abilità del regista di dar forma a un personale sguardo stilistico-formale affiora anche in un documentario didattico come Taris, ou la natation (1931). Taris è filmato con una particolare attenzione alla cinetica dei movimenti in acqua: panoramiche dall’alto, riprese in ralenti o accelerato e variazioni di campo metrico nel rapporto tra il corpo e la macchina da presa filmano una creatura acquatica immersa nel suo elemento naturale.
Nelle analisi che Maurizio Grande fa dei tre film di Vigo emerge, allora, come «la costituzione simbolica di un senso del reale» (Grande 1980, p. 146) messa in opera nella costruzione dell’immagine filmica sia in grado di svincolarsi dal discorso, dall’«ipoteca narrativa» (Grande 2004, p. 59), per giungere, mediante figure linguistiche e stilistiche alla creazione di un’atmosfera di realtà. È sul concetto di atmosfera cinematografica che Grande si sofferma nell’ultima parte della monografia, quella dedicata al capolavoro di Jean Vigo, L’Atalante (1933):
Per “atmosfere cinematografiche” intendo non solo gli “effetti” stilistici o espressivi prodotti come il risultato di un certo modo di operare con la macchina del cinema. Piuttosto, intendo la capacità di far scaturire dalle cose stesse o da una vicenda appena abbozzata, dal tratteggio in punta di pennello dei personaggi, l’alone del senso che li tiene in vita, che tiene in vita il film. Dunque, la capacità che ha il cinema con certi cineasti di creare atmosfere attorno a fatti e materiali, una atmosfera concreta, palpabile, fatta di luci e di oggetti, di corpi e di personaggi umani e naturali (ivi, p. 85).
Nel caso de L’Atalante, il cui soggetto, che racconta la vita quotidiana di due neosposi, «era il classico soggetto per un cinema minorato» (ivi, p. 86), Vigo ingaggia una sfida ancora più complessa: quella di far scaturire delle atmosfere di realtà da una sceneggiatura di primo acchito abbastanza banale. Per far ciò, gli allontanamenti, le distanze che si intromettono nella fresca intimità dei due giovani, si accumulano in dei momenti impercettibili e delicati, non dovuti all’insidia delle persone (il venditore ambulante, Père Jules) o dei fatti, piuttosto alle «atmosfere che affascinano Juliette, [a] quel potere soffuso dell’immaginario alimentato da ciò che l’ambulante [le] sussurra nell’orecchio» (ivi, p. 101). È nelle vicende minime de L’Atalante che Grande scopre l’eccezionalità del rapporto atmosferico tra cinema e realtà: il critico sottolinea appunto che non sono le immagini “piene” ed “eloquenti” ad affascinarlo (come quelle sensuali dei due giovani distanti che passano una notte insonne nel desiderio dell’altro), ma la secchezza stilistica delle immagini “vuote” (il folle girovagare di Jean nella luce di un’alba lunare).
Un modo di far cinema come “esperienza del sentire”, del sentire e del vedere il mondo con la “sensibilità della pellicola”. Maurizio Grande prende in prestito l’espressione da uno dei pochi scritti teorici di Jean Vigo che si intitola Sensibilité de pellicule (1932): in questo scritto il regista, sostenendo fin dall’incipit che «l’occhio dell’uomo non è più sensibile del suo cuore», constata speranzoso l’esistenza della pellicola cinematografica, il suo essere sensibile agli eventi del mondo, al contrario degli insensibili occhi degli uomini (Vigo 1932).
Nella “teoria” vigoniana riecheggia il concetto di fotogenia che Jean Epstein, riprendendolo dalle riflessioni del teorico e cineasta Louis Delluc, adopera per descrivere le proprietà visive delle immagini, la loro capacità di potenziare sensorialmente la realtà, di rivelare la sua più intima essenza. Il regista, infatti, eredita la maestria nel “generare” il senso pellicolare dai cineasti della nuova aurora del cinema francese degli anni ’20 e ’30 (da René Clair, Jean Epstein, Marcel L’Herbier fino a Julien Duvivier, Marcel Carné e Jean Renoir) che, secondo Denis Brotto in uno dei più interessanti e recenti lavori sul cinema di Vigo (2018) successivi a quello di Grande, prestavano molta cura all’emanazione di una dimensione sensoriale dell’immagine, a volte allontanandosi dai meccanismi narrativi convenzionali. Anche se Grande, probabilmente per necessità editoriali di concisione e brevità, non compie questo lungo giro (che invece compie per analizzare in che modo l’opera di Vigo prenda le mosse dal contesto delle avanguardie), descrivere il «senso pellicolare» che le “atmosfere” vigoniane trasudano implica confrontarsi, anche implicitamente, con la risonanza che i sopracitati registi e teorici ebbero sulla sua opera.
Ritorniamo all’articolo citato in apertura, L’Icona Cinematografica, perché esso è attraversato da una convinzione perorata proprio dal “contatto pellicolare” che Grande ebbe col cinema di Vigo, che cerchiamo così di riassumere: le precise angolazioni delle riprese, il taglio delle inquadrature, il minuzioso montaggio delle sequenze, l’accurato lavoro sull’illuminazione e sul contrasto della pellicola producono «effetti di senso» o meglio «un surplus di senso sopraelevato» (Grande 1980, p. 148). Questo surplus di senso crediamo essere la “potenza della vita” che emerge solo «nella finzione del ripensamento» (Grande 2004, p. 107). La vita può invero essere scritta col linguaggio cinematografico, con un linguaggio che si forma, però, solo a contatto con la vita stessa. È questo l’impegno che Grande condivide con Jean Vigo.
Riferimenti bibliografici
D. Brotto, Jean Vigo. Opera completa, Mimesis, Milano-Udine, 2018.
J.L. Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Donzelli, Roma, 2006.
R. De Gaetano, Lo sguardo liminare. Breve saggio su Maurizio Grande, la balestra studi, Cosenza, 1999.
M. Grande, L’Icona Cinematografica, in “Artibus et Historiae”, Vol. 1, N. 2 (1980).
Id., Jean Vigo, Il Castoro, Milano, 2004.
J. Vigo, Sensibilité de pellicule (1932), in “Sésame”, 1932, riportato in P. Lherminier, Jean Vigo. OEuvre de cinéma.
Id., Vers un cinéma social, in “Positif”, n.7, 1953.
Maurizio Grande, Jean Vigo, Il Castoro, Milano 1979.