Una macchina Olivetti con un foglio dattiloscritto all’interno, un accendino, un portacenere. Un dolce sorriso appena accennato, con una piccola ruga proprio sopra le labbra. Due occhi puntati dritti verso l’obiettivo, verso il fotografo (verso noi spettatori). Non è un frame di un film ma una fotografia. Più precisamente un ritratto fotografico di una regista della quale recentemente si è tornati molto a parlare. Si tratta di Chantal Akerman, l’autrice di Jeanne Dielman (1975) che la rivista inglese “Sight and Sound” poco tempo fa ha eletto come il più grande film di tutti i tempi (scelta ampiamente discussa poi sui social), colta qui in un momento di pausa del suo lavoro. O forse, come appena risvegliata da un sogno.
L’autore dello scatto (che risale al giugno del 1986, all’uscita parigina del film Golden Eighties) è Jean Ber, un fotografo specializzato nel ritrarre personaggi del mondo del cinema e della musica, collaboratore di testate importanti come “Libération”, “7 à Paris”, “Première”, “Jazz magazine” e così via.
Questa foto ci offre l’occasione per riflettere sulle questioni (teoriche ed estetiche) che chiama in causa il ritratto fotografico, e soprattutto il ritrarre un’artista. E ci sembra particolarmente interessante farlo a partire dall’opera di un fotografo che ha fatto proprio di questo aspetto il centro della sua opera. Se sfogliamo infatti il suo portfolio troviamo una ampia galleria di attori e musicisti: da Michel Piccoli a Laura Morante, da Alain Delon a Michel Petrucciani.
Nel ritratto fotografico ci si trova in quella particolare condizione descritta perfettamente da Roland Barthes ne La camera chiara:
La foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano. Davanti all’obiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole, azione bizzarra: io non smetto di imitarmi, ed è per questo che ogniqualvolta mi lascio fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura. Immaginariamente, la Fotografia rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che diventa oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte: io divento veramente spettro. […] Sento che da questo brutto sogno dovrò destarmi ancor più brutalmente; infatti io non so cosa la società fa della mia foto, che cosa vi legge; ma quando mi scopro sul prodotto di questa operazione, ciò che vedo è che io sono diventato Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona (Barthes 1980, pp. 13-15).
Il ritratto accompagna la fotografia in tutto il suo sviluppo: dagli albori, in cui i soggetti fotografati erano costretti a lunghe pose («Come un condannato a morte davanti al plotone di esecuzione, il soggetto si aggrappava strettamente ai braccioli della sedia e fissava uno sguardo severo su un grosso apparecchio fotografico con l’obiettivo di ottone, mentre il fotografavo scompariva sotto un panno nero per sistemare la messa a fuoco. Non c’è da meravigliarsi se gli uomini, le donne e i bambini ritratti hanno di solito un’aria così infelice», Lenman 2008, p. 923); passando per la carte de visite di Disdéri e Nadar (davanti al cui obiettivo passarono gli intellettuali e gli appartenenti all’alta borghesia parigina, da Nerval a Baudelaire, da Delacroix a Berlioz a George Sand); arrivando ai selfie che si pubblicano ogni giorno su Instagram, in cui si salta ogni distinzione tra pubblico e privato (ogni utente ha la possibilità di entrare nella vita quotidiana dei personaggi più noti) e tra autore e pubblico.
Se in un primo momento della sua storia la fotografia si occupa del “notevole”, ben presto opera un capovolgimento, decretando «notevole» ciò che fotografa (Barthes 1980, p. 35); sia esso irrilevante o «qualunque» o anonimo. Quell’anonimo a cui la fotografia ha la capacità di assegnare e conferire valore e riconoscibilità (di renderlo «meritevole di essere immortalato» per il solo fatto di fotografarlo). La fotografia mostra insomma la capacità di far diventare soggetto l’oggetto rappresentato. L’ordinarietà dell’oggetto e delle situazioni fotografate diventa straordinaria e significativa per il suo accedere ad immagine.
Nello stesso tempo però, e con un movimento inverso, essa rende oggetto il soggetto fotografato. Secondo McLuhan: «La macchina fotografica tende a trasformare le persone in cose, e la fotografia estende e moltiplica l’immagine umana alle proporzioni di una merce prodotta in serie. Le dive del cinema e gli attori più popolari sono da essa consegnati al dominio pubblico. Diventano sogni che con il denaro si possono acquistare» (McLuhan 2013, p. 294). È questo evidentemente il caso delle celebrità, di coloro che sono già immagine. E la cui rappresentazione fotografica diventa dunque immagine di un’immagine.
Come accade nell’opera appunto di Jean Ber, in cui questi aspetti teorici si possono vedere perfettamente all’opera. Come ha dichiarato lo stesso Ber: «Il rapporto del fotografo con i propri modelli è complesso: questi sono sia diffidenti che esigenti. È un interessante gioco di specchi, tra ciò che desiderano restituire come immagine di loro stessi e ciò che il fotografo vuole “prendere” da loro». Ecco quindi che nella ritrattistica la fotografia si rivela, mostrando la sua natura di immagine, «juste une image».
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980.
M. McLuhan, Fotografia. Il bordello senza muri, in M. Guerri, F. Parisi, a cura di, Filosofia della fotografia, Raffaello Cortina, Milano 2013.
“Ritrattistica”, in Dizionario della fotografia, a cura di R. Lenman, edizione italiana a cura di G. D’Autilia, vol. II, Einaudi, Torino 2008.