Copricapo in pelliccia di coyote sormontato da corna in stile fantasy, orecchini piumati e pendente metallico, volto dipinto a stelle e strisce, torso nudo foderato di tatuaggi norreni, braghe da lavoro color anatra, guanti invernali touchscreen, lancia portabandiera, megafono a tracolla, zainetto scolastico. L’outfit con cui Jake Angeli ha guidato l’assalto filo-trumpiano a Capitol Hill lo scorso 6 gennaio è un patchwork sconclusionato di simboli prelevati da culture indigene ed esotiche, frullati e indossati con nonchalance post-postmoderna, a cavallo tra situazionismo e suprematismo. Epperò il suo dadaismo ha funzionato, se è stato individuato ed eletto dai media a icona dell’insurrezione. Grazie al senso per la moda di Jake la presa del Campidoglio americano mentre il Senato stava ratificando la vittoria di Joe Biden rimarrà negli annali non solo come la drammatica materializzazione degli spettri trumpiani, ma anche e forse soprattutto come una penosa performance folcloristica. Di fatto è il primo evento mediatico del 2021. 

Ma qui lascio da parte gli effetti nefasti del colpo di coda con cui Donald Trump ha deciso di (non) uscire di scena come neanche il Frank Underwood di House of Cards (2013-2018) avrebbe saputo escogitare, o del fanatismo cospirazionista di QAnon che ha fomentato ideologicamente l’irruzione e che neppure il Tom Kirkman di Designated Survivor (2016-2019) avrebbe potuto fronteggiare (di questi aspetti politici si parla meglio qui). Più modestamente mi interessano alcune dinamiche che segnalano la simbiosi tra Moda e Media e la crucialità di tale rapporto per la comprensione del paesaggio antropologico contemporaneo. La moda è un medium non solo perché è un sistema di segni (come ci ha insegnato la semiotica) o una cartina di tornasole della società (come ci ha insegnato la sociologia), ma anche perché pone in relazione il corpo (biologico e sociale) e l’ambiente (naturale e culturale) indicando alcune tendenze collettive cui sottostanno certe tensioni.

La spettacolarizzazione dell’evento è stata realizzata dai media giornalistici vetrinizzando il corpo-manichino di un 32enne aspirante attore dell’Arizona (il suo vero nome è Jacob Chansley), perfettamente funzionale alla logica di semplificazione iconica tipica dei processi informativi, non tanto per il valore delle idee che intendeva affermare e degli atti che ha compiuto, ma per la mise eccentrica, improbabile, clownesca. Il corpo di Jake, al contempo grottesco e virile, è stato elevato a emblema dell’evento per la sua fotogenia mediale, peraltro rispondente alla necessità di una doppia valorizzazione: una follia tragica ma anche ridicola. Sintetizzando con precisione questa doppiezza, Jake ha ottenuto per sé e per la protesta una maggiore efficacia mediatica, senza negare che il suo non è stato un travestimento, ma un abito di scena volutamente caricaturale.

Anche la geografia simbolica di cui si è rivestito è piuttosto discutibile e contraddittoria. In essa convivono almeno tre motivi. Il copricapo (pelliccia e corna), gli orecchini piumati e la lancia rimandano a figure sciamaniche dei nativi americani. I tatuaggi nella metà sinistra del torso, in bella vista nonostante la stagione invernale, sono invece segni della tradizione mitologica pagana dei norreni (cioè i vichinghi): i tre triangoli intersecati (Valknut) stanno per l’onore dei guerrieri caduti; il martello capovolto (Mjolnir) è l’arma di Thor, dio del fulmine e del tuono; l’albero cosmico (Yggdrassil) è fonte della vita, del sapere e del destino. Infine, la bandiera americana in doppia versione: una in stoffa legata alla lancia, l’altra dipinta al vivo direttamente sul volto.

A Jake non interessa l’interferenza tra il rimando agli indiani d’America, popolo soggiogato dai bianchi, e la simbologia dei vichinghi, il popolo più bianco del bianco e che ben prima dei navigatori italiani era approdato, da Nord, al continente americano. Il suo costume è un compendio (decisamente approssimativo e kitsch) di storia nazionale che per somma e non per sintesi tiene insieme i due pilastri divergenti di una precisa filosofia (in fondo molto pop): sciamanesimo e razzapurismo.

L’immaginario vichingo è certamente filtrato dalla rivisitazione iconografica che parte da Wagner e arriva alla serie televisiva Vikings (2013- in corso) e più in generale, come hanno notato gli storici, da un processo di idealizzazione del Medioevo nordico a scopi politici. Ciò che appare più interessante tuttavia è il motivo sciamanico che riveste la leadership (quantomeno visuale) di Jake Angeli. Nella cultura dei nativi americani lo sciamano raggiunge l’estasi attraverso la meditazione, la danza e l’assunzione di allucinogeni e comunica con gli spiriti e i morti, svolgendo una funzione taumaturgica e divinatoria per la sua comunità. Ma la comunità di cui Jake sarebbe lo sciamano non è quella dei seguaci di QAnon, teoria del complotto dell’estrema destra americana che il mondo ha potuto conoscere meglio proprio in occasione dell’occupazione di Capitol Hill (un’Epifania, come da calendario…). È piuttosto il resto della popolazione, che ha bisogno di essere guarita e credere al complotto attraverso un rito officiato in diretta sui social e in televisione.

Come ha spiegato l’antropologo Claude Lévi-Strauss, il modo in cui lo sciamano guarisce dipende dalla sua efficacia simbolica, ovvero dalla sua capacità di riprodurre metaforicamente la condizione del sofferente e costruire una rappresentazione mitica che, conferendo significato al dolore, lo riduce. Come una sorta di effetto placebo, l’azione sciamanica non agisce a livello biochimico come un farmaco, ma su quello dell’immaginario, delle credenze culturali di una società e del rapporto comunicativo tra guaritore e paziente. Negli anni novanta già Dayan e Katz avevano intuito che i grandi eventi storici veicolati dai media hanno un potere sciamanico, capace di trasformare e ridefinire il tempo e lo spazio sociali. Da saggio sciamano del villaggio globale, Jake Angeli ha sfruttato l’occasione per proiettare il proprio rito nell’orizzonte ampio dell’evento mediale e amplificare la scala dei suoi effetti. Lo ha fatto sfruttando l’analogia funzionale e strutturale tra Moda e Media, sintetizzando plasticamente le tensioni che serpeggiano sul suolo americano alla vigilia del giuramento presidenziale di Biden, immolando il proprio corpo (lo sciamano è diventato capro espiatorio) in un rito sacrificale, unendo goliardia e trance estatica.

In un tempo in cui i media selezionano i contenuti (spesso deprecabili), catalizzano l’attenzione (spesso in modo irrazionale) e ne innescano una diffusione esponenziale (spesso incontrollabile) grazie alla partecipazione attiva del pubblico (spesso inconsapevole), il caso di Jack Angeli ci spinge oltre, in un’era post-virale in cui la viralità è un elemento costitutivo e non più distintivo della realtà. Il virus si diffonde perché lo abbiamo incorporato (infatti il medium è il corpo, non il messaggio): stiamo solo aspettando di inoculare un vaccino antimediale che ci renda immuni, ovvero – etimologicamente – refrattari al contagio ed esenti da obblighi. Se non sarà sufficiente ci rivolgeremo a qualche altro sciamano.

Riferimenti bibliografici
D. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Baskerville, Bologna 1993.
M. Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974.
C. Lévi-Strauss, “L’efficacia simbolica”, in Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966.

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