Le misure restrittive degli ultimi giorni si basano su un principio molto semplice: il medium del virus siamo noi, Covid-19 ha bisogno di noi per potersi replicare e diffondere e se viene meno questa nostra azione di mediazione muore, o meglio lentamente perde la sua forza virale. Nelle invocazioni, ormai accorate da parte di esperti, medici, protezione civile, c’è di fatto la richiesta di rinunciare momentaneamente a questa azione di mediazione e l’isolamento forzato imposto per decreto è una risposta eccezionale alle resistenze vitali che pur comprensibilmente in questi giorni stiamo manifestando. Rinunciare ad essere medium significa rinunciare ad essere noi stessi, animali umani. Il problema, tuttavia, è che non lo sappiamo, cioè che non siamo consapevoli di non poter non essere medium.
Qui i filosofi direbbero che questa impossibilità rientra nei tipici paradossi della filosofia: come si fa a parlare dell’esperienza se ci si sta dentro, o come si fa a pensare il linguaggio se non se ne può uscire? Ecco, stiamo vivendo lo stesso paradosso con cui commerciano abitualmente i filosofi, con l’unica differenza che mentre, per il momento, possiamo lasciare a loro la domanda sull’esperienza o sul linguaggio, l’epidemia di coronavirus ci sta obbligando a porci seriamente e collettivamente la domanda: cos’è un medium? L’emergenza, naturalmente, non può essere ridotta a questa domanda, ma sono proprio medici e scienziati a dirci che da soli non ce la possono fare e che ognuno di noi deve fare la sua parte. Fare oggi la nostra parte passa anche attraverso l’elaborazione collettiva del nostro essere media. Una maggiore consapevolezza rispetto a come funziona la mediazione, ci potrà aiutare a superare questo momento e ad affrontare le sfide del futuro post-coronavirus.
In realtà, l’accelerazione dello sviluppo e della diffusione delle tecnologie mediali su larga scala ormai già da un po’ ci ha fatto familiarizzare con l’idea di essere noi stessi dei media. E questa idea viene veicolata proprio attraverso la sovrapposizione tra l’ambito biologico e quello comunicativo, innanzitutto attraverso l’utilizzo di parole che oggi ormai sono bandite nella comunicazione di tutti i giorni, ma che fino a ieri venivano invocate per descrivere qualsiasi efficace campagna di comunicazione. Un contenuto virale è un contenuto che per sue caratteristiche intrinseche riesce ad attivare la partecipazione degli utenti e quindi a propagarsi moltiplicandosi. Nell’ambito della cultura partecipativa istituita dal web 2.0 e dai suoi derivati, in cui notoriamente viene meno la distinzione netta tra produttore e consumatore di contenuti, la spreadability, cioè la capacità di diffusione dei contenuti, è il vero termometro attraverso cui misurare l’efficacia di una comunicazione.
Questa capacità pervasiva dei media e delle nuove pratiche mediali che ci investono direttamente, bisogna ricordarlo, non è dovuta alla malvagità della tecnica o della comunicazione, altro grande tema che diventa terreno di incomprensioni nel nostro tempo, ma al fatto che i media rispondono ad una naturale predisposizione dell’essere umano, cioè quella di adattarsi all’ambiente attraverso degli artefatti tecnici, che non sono altro che vere e proprie estensioni del nostro corpo e delle nostre facoltà (l’esempio più semplice per dare concretezza a questo discorso è quello del GPS, che ci orienta nello spazio). La tecnica può svolgere – come sostiene Pietro Montani – tre diverse funzioni: integrativa, quando un utensile va ad integrare o aumentare il nostro corpo, per esempio un chopper; correttiva, come sono gli occhiali che utilizzo per vedere meglio o la protesi che indosso se ho perso un arto, o sostitutiva, quando affido il calcolo alla macchina, perché lo fa meglio e più velocemente di me. Teniamo ferma in mente questa distinzione perché ci tornerà utile alla fine del nostro discorso.
Ritorniamo ora alla situazione che stiamo vivendo. Qual è la novità che, da un punto di vista mediologico, presenta l’epidemia coronavirus e cosa ci mostrano anche le evidenti difficoltà della comunicazione nel gestirla e nel rappresentarla, riscontrate a tutti i livelli, dai comunicati stampa ufficiali alle news passando per le nostre bacheche di Facebook? Per la prima volta nella recente storia delle emergenze globali, questa epidemia ci mette di fronte proprio al nostro essere media, cioè al nostro trovarci nel mezzo, quale parte attiva di un continuo processo trasformativo che si sviluppa nella totale ibridazione dei piani e delle scale di grandezza, il piano umano e quello non umano, quello biologico e quello mediologico.
Su questo punto risultano decisive le tesi di Richard Grusin sul concetto di mediazione radicale: la mediazione non opera soltanto attraverso la comunicazione, ma è un processo fondamentale dell’esistenza umana, che non agisce su soggetti, oggetti o entità già pre-formati, bensì contribuisce alla loro individuazione. L’essere umano, nell’era dell’Antropocene, deve essere compreso come una forza che agisce sul pianeta insieme a tutte le altre, quelle climatologiche, geologiche, economiche e politiche, per cui la mediazione deve essere intesa come l’incrocio di tutte queste forze. La diffusione e l’intensificazione di nuovi dispositivi e prassi mediali che hanno caratterizzato l’inizio del XXI sono innanzitutto la dimostrazione del fatto che, dice Grusin, la mediazione non può essere più confinata unicamente all’ambito della comunicazione, ma deve essere applicata a tutte le attività umane e non umane. Il Coronavirus ci sta violentemente mostrando questo. Scrive Grusin:
Nell’era antropocenica del cambiamento climatico e dell’estinzione di massa, la mediazione radicale estende la mediazione alla scienza e al mondo fisico e rivendica che la tecnoscienza, al pari della letteratura, la cultura, le arti e le scienze umane, venga considerata seriamente come una forma di mediazione (Grusin 2017, p. 267).
L’epidemia di coronavirus, l’enorme potenza mediatica che essa sta sprigionando e la paura che stiamo vivendo in questi giorni mostrano con chiarezza come ormai i piani della mediazione non possono più essere separati (e quindi gestiti separatamente), distinguendo, ad esempio, da un lato, il piano medico, dall’altro quello comunicativo e dall’altro ancora quello politico (o biopolitico). Questa ibridità è la specificità del nostro ambiente mediale, cioè del mondo in cui viviamo, noi abitanti delle democrazie occidentali iperconesse tramite la rete. Il senso di smarrimento che stiamo vivendo in questi giorni risiede anche nel fatto che per la prima volta tocchiamo con mano la radicalità della mediazione di cui noi siamo parte attiva. Questo toccare con mano va inteso in tutti i sensi possibili, e non si può non enfatizzare la significatività di quella che può sembrare meramente una metafora evocativa. Lo sappiamo bene, ormai, le mani sono il primo medium del virus (per questo dobbiamo lavarle spesso e accuratamente), ma le mani sono anche il punto di contatto tra noi e il mondo che abbiamo letteralmente a portata di mano, tramite i dispositivi mediali che usiamo in continuazione.
Molti hanno detto, anche in forma di autocritica, che i media tradizionali (stampa, tv, radio) hanno di fatto seguito la pancia del paese che si esprimeva attraverso i social media. Prima nella forma della premediazione del contagio, quando ancora pensavamo di poter opporre una forma di distanziamento tra loro (i cinesi untori) e noi resto del mondo, e che bastava proteggerci dal pericolo esterno. Poi nella forma di resistenza vitale, obliando la nostra stessa carica mediale-virale (#milanononsiferma); e infine negli appelli alla responsabilità che piovono oggi da tutte le parti. Ed è significativo che il primo ministro, in conferenza stampa, abbia utilizzato proprio l’hashtag lanciato in rete, #iorestoacasa, per dare un nome ai provvedimenti eccezionali che si apprestava a varare. Siamo noi, in pratica, i mediatori dell’affettività collettiva che unisce il paese, noi attraverso le nostre stories in cui raccontiamo la vita ai tempi del coronavirus, noi che mandiamo messaggi WhatsApp a persone anziane suggerendo di fare scorte alimentari perché presto si potrà andare a fare la spesa solo accompagnati dai militari (storia vera), noi che facciamo circolare catene informative errate, sostenendo che il caldo non farà diminuire la progressione del virus, noi che condividiamo sulle nostre bacheche meme, per esorcizzare con l’ironia la paura che ci attacca. Proprio per questo motivo, il paradigma della spettacolarizzazione dell’emergenza non funziona più per comprendere questo momento, perché l’epidemia ci sta mostrando come venga meno la dicotomia tra rappresentazione e realtà e come le due cose siano strettamente intrecciate, perché è la nostra vita postmediale ad essere costitutivamente ibrida.
Noi dunque, siamo il medium e essere responsabili oggi significa farsi carico di questa nostra condizione nella forma radicale che questo momento ci sta mostrando. Il compito collettivo è dunque quello di riuscire ad elaborare questa nostra condizione, per l’oggi, sicuramente, ma anche per il domani. Sergio Benvenuto ha scritto: «La clausura generalizzata dovuta all’epidemia (o meglio, al prevenirla) diventerà la nostra forma di vita abituale». Ecco, quando tutto sarà passato e avremo preso confidenza con le forme di rimediazione forzata della nostra vita affettiva, sociale e lavorativa, dovremo fare un nuovo sforzo collettivo che consisterà nel non dimenticare quanto avremo appreso, anche a caro prezzo, ovvero che non possiamo non essere medium. Non potremo correre il rischio di rinunciare al nostro essere media, di delegare alla tecnica, nella sue potenzialità sostitutive, il nostro essere mediatori innanzitutto dell’affettività collettiva. Torneremo fisicamente nelle piazze, nelle aule, nei bar, nella consapevolezza che essere all’altezza del nostro essere mediatori radicali significherà anche aprire una nuova fase di sperimentazione per una medialità sempre più integrata tecnicamente, ma mai completamente sostituita.
Riferimenti bibliografici
R. Eugeni, La condizione postmediale. Media, linguaggi, narrazioni, La Scuola, Brescia 2015.
R. Grusin, Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di A. Maiello, Pellegrini 2017.
H. Jenkins, S. Ford, J. Green, Spreadable media. I media tra condivisione, circolazione, partecipazione, Apogeo, Milano 2013.
P. Montani, Tre forme di creatività. Tecnica, arte, politica, Cronopio, Napoli 2017.
F. Parisi, La tecnologia che siamo, Codice Edizioni, Torino 2019.
F. Zucconi, Rilocazione obbligata, “il lavoro culturale”, 10 marzo 2020.