Godard e la psicoanalisi
Qualche anno fa Jean-Luc Godard ha affermato, a modo suo, cioè eloquente ed enigmatico, che il cinema ha mancato l’incontro con se stesso, l’appuntamento con se stesso. Il cinema consiste, almeno secondo il cineasta “parigino”, nel rendere visibile e non nel rendere il visibile. Un film di fatto non è, in primis e da ultimo, che una serie di immagini – o, se si preferisce, un flusso di immagini – volta a far vedere il farsi dell’immagine, il costituirsi dell’immagine, l’insorgere dell’immagine (dunque l’incessante istituirsi della cose, della vita) e non a far vedere delle immagini di qualcosa – tanto meno di quel qualcosa che è una storia. Il cinema è questo farsi, è nato a causa di questo e per questo. Il cinema, così sentenzia Godard, non è stato fedele a questo, alla sua insorgenza, diventando ben presto l’illustrazione di una storia, la messa in visione di qualcosa di altro. La stessa identica cosa possiamo affermarla per la psicoanalisi – che dunque non condivide con il cinema solo, o tanto, la data di nascita, ma la causa e il destino. La psicoanalisi nasce per dire, o meglio per far dire e a causa del far dire, il farsi della vita – farsi che Freud chiama inconscio, o, più precisamente, pulsione. Non si tratta di accettare, o peggio rassegnarsi, a questo fallimento e passare ad altro. Non si tratta di fare di questo fallimento il reale – il reale è l’impossibile si è ormai soliti dire, dunque, per esempio, l’impossibilità della psicoanalisi di essere fedele a se stessa sarebbe il reale della psicoanalisi. Si tratta di fare uno sforzo, di praticare un esercizio costante affinché l’insorgenza, il farsi della vita, continui a farsi sentire, a farsi vedere – e dunque a far vedere e a far sentire.
Uno sforzo
Questo sforzo è per certi versi molto semplice. Si tratta di intendere e maneggiare l’accadere in e di quel che accade, lo scriversi di e in quel che si scrive, il tracciarsi in e di quel che si traccia, il differenziarsi di e in quel che si differenzia, l’istituirsi di e in quel che si istituisce, ecc… Detto altrimenti, si tratta di maneggiare la vita, i suoi incontri, i suo fatti, le sue delusioni, i suo slanci ecc… a partire dal suo farsi, dal suo accadere perpetuo, dal suo incessante evento – insomma, di intendere la vita come morfogenesi in atto. A questo sforzo si dedica da anni, con intensità ed efficacia, Federico Leoni, il quale, in due circostanze, ha deciso di portare avanti questo sforzo con Lacan, facendo cioè dello psicoanalista parigino il partner privilegiato, se non esclusivo, della propria ricerca, della propria enunciazione. La prima circostanza è relativa al testo Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto (Leoni 2016), la seconda circostanza, che è poi l’oggetto di questa nostra breve riflessione, è relativa a Jacques Lacan, una scienza di fantasmi (Leoni 2019).
Perché questo sforzo
Come mai questo sforzo? Questo sforzo è necessario – ci permettiamo di sintetizzare brutalmente una delle tesi di fondo del lavoro di Leoni – per trattare la causa di quel che accade, dunque per evitare l’ideologia nella quale scivola ogni pratica che si occupa di quel che accade trascurando quel che lo causa. E perché si tratta di uno sforzo? Si tratta di uno sforzo perché ci costringe ad una postura – che senz’altro possiamo definire immanentista – che ci fa trattare le cose mentre si è immersi in queste e mentre si è spinti da queste e non una volta che queste si sono depositate e si sono messe di fronte a noi. Si tratta inoltre di uno sforzo perché questa postura ci costringe a una torsione verso un po’ di follia – ossia verso il senza ragione, il senza criterio – e verso un po’ di idiozia – ossia verso il senza alterità, senza il qualcosa d’altro.
Perché la psicoanalisi
La psicoanalisi occupa un posto privilegiato nella ricerca di Federico Leoni in quanto si tratta di una pratica interamente morsa, piegata e fatta da questo sforzo. Non è certo l’unica pratica ad essere presa in questo sforzo, ma è quella che probabilmente più di altre – e peggio di altre – è sorta a causa di questo sforzo e come fedeltà a questo sforzo. In effetti la pratica psicoanalitica è insorta per dire la morfogenesi in atto e per installarsi in essa. Ha poi portato avanti questo sforzo con molti inciampi, contraddizioni, resistenze, turbolenze, ma con una certezza di fondo: per dire la morfogenesi in atto e installarsi in essa, occorre far dire la morfogenesi in atto e ancor più farsi dire da questa, così come per installarsi nella morfogenesi in atto è necessario farsi installare, farsi fare dalla morfogenesi in atto. Come anticipato, la psicoanalisi ha però fallito, ha mancato l’appuntamento con se stessa, ha perso la sua certezza. Qui entra in gioco Lacan, il quale da un lato sentenzia – alla Godard – questo auto-tradimento della psicoanalisi – ed è qui che annuncia l’esigenza del ritorno a Freud, come antidoto al tradimento – dall’altro prova a rilanciarne lo sforzo inaugurale con un’ottusità rara.
Perché Lacan
Lacan ha dunque avvertito l’auto-tradimento della psicoanalisi, il suo declinarsi come psicologia, e ha provato a fare incontrare di nuovo la psicoanalisi con la propria insorgenza. Sta qui lo sforzo ottuso di Lacan ed è per questo che Leoni si mette sulle sue tracce, per portare avanti il proprio di sforzo. Da queste tracce Leoni estrae e fa risuonare delle piegature. Mi limito qui a sottolinearne tre. La prima è il c’è dell’Uno, la seconda è il fantasma, la terza è lo stile. Queste tre pieghe delineano e indicano un orizzonte verso il quale è, a mio avviso, necessario insistere, con convinzione.
Un altro Uno
La prima piega è, come detto, relativa al problema dell’Uno, ed è una piega massimamente etica, in quanto porta avanti una necessità, quella di affermare un altro Uno rispetto a quello che la psicoanalisi, la psicoanalisi che si è auto-tradita, che si è mancata, ha messo al centro della sua pratica. Si tratta dunque di affermare l’Uno reale, non l’Uno simbolico, non l’Uno immaginario. L’Uno reale non è l’unità perduta e mirata (questo è l’Uno immaginario). L’Uno reale non è l’eccezione, l’unicità (questo è l’Uno simbolico). L’Uno reale non è la chiusura identitaria e masturbatoria, non è l’Uno unificante, non è la fusione simbiotica, non è l’Ideale, non è il caos indifferenziato, non è il funzionamento delle differenze – tutto ciò è ancora l’Uno immaginario e l’Uno simbolico. L’Uno reale è l’Uno del c’è dell’Uno. Lacan lo dice e scrive Y’a d’l’Un, «formula quasi glossolalica, condensazione artaudiana di elementi che la sintassi distinguerebbe e iscriverebbe in qualche gerarchia» (ivi, p. 52), formula con la quale Lacan indica e nomina l’accadere al fondo di ogni accadimento e insistente in ogni accadimento.
Questa formula sgrammaticata serve a Lacan ad affermare che l’Uno viene prima dell’Altro, prima che non vuol dire l’indifferenziato prima del differenziato, il chiuso prima dell’aperto, ma vuol dire l’istituirsi della differenza, l’insorgenza dell’apertura: «Prima dell’Altro, che è il nome del rapporto istituito, c’è l’istituirsi del rapporto, il cui nome è Uno» (ivi, p. 35). Questa formula sgrammatica serve inoltre a Lacan per affermare che questo prima dell’Altro è una monade, sia perché non consiste che nell’accadere, sia perché ogni cosa che accade, accade al suo interno, come piega dell’accadere, come taglio dell’accadere – non c’è fuori dell’accadere. Per queste ragioni, Uno, anche se storpiato nella formula Y’a d’l’Un, è il modo migliore per indicare e nominare l’accadere come causa, ossia l’«incessante genesi monodologica» (ivi, p. 72). La psicoanalisi è tale se e solo se, è capace di farsi carico, teoricamente e praticamente, di questo prima – detto altrimenti la psicoanalisi è tale, tesi forte di Leoni, solo quando diventa schizoanalisi, ossia si fa carico della follia e dell’idiozia dell’accadere incessante, dell’insorgenza continua, che è folle e idiota perché assoluta, alogica, fuori senso e fuori calcolo – ed è così, proprio perché è l’insorge di tutto ciò, cioè del legame, della logica, del senso e del calcolo.
Una circostanza che si crea da sé
La seconda piega è quella del fantasma. Qui l’operazione di Leoni è estremamente audace – non è un caso che il titolo del libro metta l’accento su questo passaggio, e dunque sulla scienza del fantasma, ossia sul farsi carico del fantasma. Perché audace? Perché Leoni non fa del fantasma un riparo dell’incessante morfogenesi in atto, una deposizione fissa di questa, quanto una piega, un modo della morfogenesi in atto, una declinazione particolare e circostanziale dell’accadere che tuttavia è a sua volta un accadere. Se il fantasma è un montaggio di incontri, un bricolage di immagini, che si crea nella vita di ciascuno in modo singolare, questo montaggio, questa immagine bricolage – immagine scatola la chiama spesso Leoni – non è una semplice deposizione dell’accadere, dell’incessante insorgenza che è la pulsione, una localizzazione e fissazione di questa, ma è un’immagine bricolage che a sua volta è incessante insorgenza, morfogenesi.
Detto altrimenti, il fantasma è sì un modo dell’accadere, la declinazione particolare che prende nella vita di ciascuno, è sì la determinazione particolare dell’accadere in un’immagine, ma pur essendo ciò, è a sua volta accadere, morfogenesi in atto – siamo invece soliti pensare, anche con Lacan, il fantasma come un arresto della morfogenesi in un’immagine bricolage. Il fantasma è dunque «una circostanza creatasi da sé» (ivi, p. 103), ossia non c’è alcun motivo a determinarne la creazione, non ha premesse, non c’è ragione nel fatto che nella vita di qualcuno si sia determinato un certo fantasma piuttosto che un altro, il fantasma si crea da sé. Questa circostanza creatasi da sé, pur essendo una circostanza determinata non arresta l’incessante morfogenesi in atto ma è, a sua volta, morfogenesi in atto. Va detto che questo punto di audacia viene esteso da Leoni a molte faccende dell’insegnamento di Lacan – si veda ad esempio la notevole riflessione sul tratto unario, il quale non è inteso da Leoni come deposizione o manifestazione del tracciarsi, ma come un tratto che è, a sua volta, il tracciarsi del tratto, che è un tutt’uno con il tracciarsi del tratto: «Lato cinese della psicoanalisi» (ivi, p. 150).
Quattro problemi
Se poniamo l’accento sull’audacia è perché l’insistenza di Leoni in questo punto, determina, per fortuna, diverse scosse e diversi problemi – alla psicoanalisi, a quella lacaniana in particolare. La prima scossa, forse la meno intensa, è un certo smarcamento da Lacan, da molte affermazioni di Lacan sul fantasma come difesa e fissità. La seconda scossa è relativa al trauma. Il modo in cui Leoni intende il fantasma avvicina quest’ultimo al trauma, fino a determinare diverse sovrapposizioni. Questa operazione ha il merito enorme di confondere i confini tra i due, confini che troppo scolasticamente – e troppo nevroticamente – la psicoanalisi, lacaniana in primis, tende a marcare. La terza scossa, quella decisiva, tocca l’osso della pratica psicoanalitica. Se non c’è stacco, se non c’è discontinuità tra l’accadere e i modi in cui si declina, tra l’insorgenza e i modi in cui prende forma, tra l’evento e il suo dispiegamento, la psicoanalisi, che sul rifiuto dell’accadere, dell’evento, fonda la propria idea di sintomo, e che, sulla fissità dell’accadere in un modo, fonda la propria idea di sintomo, si ritrova senza una delle fondamenta della propria pratica e teoria, perdita della quale sarà probabilmente il caso di fare qualcosa. La quarta scossa è forse quella più ampia.
Questo modo di intendere il fantasma invita a rileggere completamente la perversione. Come è noto, la perversione è la figura concettuale, l’operazione, la struttura, che porta alla massima potenza il fantasma, che lo declina cioè come assoluto. Se il fantasma è fissità, e dunque la perversione è fissità elevata ad assoluto, la perversione finisce per essere qualcosa da “curare”, ciò che più di ogni altra cosa va curato, e dunque evitato. Ma se il fantasma è morfogenesi in atto, la perversione, portandolo alla condizione di assoluto, è la struttura più prossima, nettamente più prossima rispetto a nevrosi e psicosi, al farsi della vita. Si tratterebbe di conseguenza, non tanto di curare la perversione, quanto di farsi curare dalla perversione – almeno un po’.
Lacan ride!
La terza piegatura è quella dello stile di Lacan. Si è detto e scritto tanto su questo punto. A mio avviso il testo di Leoni ha il merito di mettere l’accento su un aspetto dello stile di Lacan, quello dello stordito: «È insomma Lacan il grande stordito» (ivi, p. 148). Chi è stordito se non «colui il quale parla senza parlare a un altro, cioè senza leggere nel volto o nello schermo dell’altro il significato del suo significante, il “che cosa” del suo “che”. Lo stordito parla senza che il luogo dell’altro eserciti quella sua prestazione fondamentale. […] Parla senza sapere quel che dice, ovvero senza che l’altro gli possa rendere noto “che cosa” si stesse dicendo nel fatto “che” ci fosse in lui un dire» (ivi, pp. 145-146). Se si è sulle tracce dell’accadere, se si è realmente presi in questo sforzo, se ne portano necessariamente i marchi – e a questo punto non si è neanche più nello sforzo. Se si è presi dalle tracce della morfogenesi in atto, i marchi del proprio praticare, del proprio muoversi, del proprio parlare, del proprio atto, non possono non essere che quelli dello stordito, dell’idiota, ossia i marchi di chi non solo frequenta la soglia dell’insorgenza incessante, dell’accadere perpetuo, ma la frequenta al punto da esserne mosso, causato, fino, ogni tanto, a riderne: «L’Uno è sempre un Uno che ride» (ivi, p. 163).
Conclusione
Bisogna andare in questa direzione!
Riferimenti bibliografici
F. Leoni, Jacques Lacan: l’economia dell’assoluto, Orthotes, Napoli-Salerno 2016.
Federico Leoni, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno 2019.