Born again from the rhythm
Screaming down from heaven
Mojo pin, Jeff Buckley

Un filo di voce, limpido e dolente, si accende come una luce fioca nel buio della notte e scuotendolo lo invade, dandogli vita. Attorno ad esso cala d’improvviso un silenzio sacrale: il mondo sembra fermarsi, tutto teso a contemplare quello che pare un miracolo. È una sera come le altre, al Sin-è, nell’East Village, eppure tutto è diverso: quel suono, così sublime da sospendere il tempo, è la voce di un giovane Jeff Buckley che facendosi spazio tra tavoli, sedie e boccali di birra comincia a cantare. Appena carezzata da qualche timido arpeggio di chitarra, quella voce luminosa e tragica cattura il pubblico come in un incantesimo e lo trascina in un’esperienza estatica e trascendente dalla carica prepotentemente trasformativa. Quella voce, sola, nel cuore della notte, rapisce il pubblico e lo porta via, lontano dalla Lower East Side – lontano, forse, dal mondo.

Presentato in anteprima al Sundance Film Festival e proiettato a Firenze in chiusura della sessantaseiesima edizione del Festival dei Popoli, It’s never over, Jeff Buckley di Amy Berg tenta di restituire allo spettatore quel sentimento, costruendo un ritratto intimo, commosso e travolgente di uno dei più celebri musicisti del secondo Novecento. D’impianto sostanzialmente tradizionale, il documentario configura il suo discorso per il tramite di un’interazione feconda tra una grande mole di preziosissimi documenti d’archivio e alcune intense testimonianze di coloro che Buckley aveva più profondamente amato. Ne risulta un documentario toccante che, lontano dagli strepiti di una narrazione emozionale, si nutre piuttosto della genuina forza emotiva connaturata all’oggetto del suo racconto e della sensibilità acuta insita nello sguardo di chi si occupa di dispiegarlo.

Ripercorrendo la sua vicenda biografica dalla primissima infanzia trascorsa insieme alla madre fino alla scomparsa prematura e repentina avvenuta durante la preparazione del suo secondo album, il ritratto di Buckley articolato dal film pare premere in modo del tutto evidente su una questione che ne diviene il centro gravitazionale, il perno attorno al quale ruota e verso cui tende l’intero documentario, tanto sul piano del contenuto quanto sul piano della forma. Questo nodo, l’elemento che con più forza emerge dal racconto del film, è la sorprendente sensibilità di Jeff Buckley, intesa – nel senso più proprio, etimologico – come quell’attitudine a raccogliere in sé gli impulsi provenienti dal “fuori”, quella disponibilità, quell’apertura nei confronti del richiamo dell’altro da sé, quella propensione ad accogliere gli stimoli dell’ambiente e a farsi da essi attraversare.

A prendere forma tra le immagini e i suoni è infatti il volto di un bambino, di un ragazzo e infine di un giovane uomo capace di sentire in modo profondissimo, di instaurare con le cose del mondo un dialogo autentico e vivo, condotto con un’assoluta sincerità e una tenerezza disarmante. Se da un lato, come è ovvio, questo ritratto trabocca d’amore (di un amore diffuso, dilagante come solo può esserlo quello che si genera attorno a chi non teme di mettersi in relazione con l’altro e gli si dona dunque completamente), dall’altro, come pare altrettanto inevitabile, esso è al contempo grave e sofferente, intriso di un dolore lacerante che pare abitare – più o meno manifestamente, più o meno sotterraneamente – ogni parola e ogni silenzio. Radicalmente inseparabili, questi due modi del sentire si alternano senza posa lungo tutto il corso del film, rifrangendosi e intrecciandosi fino ad integrarsi, disciogliendo così i loro confini per fondersi in un unico corpo. Accostando slanci vertiginosi d’elevazione estatica e rovinose cadute nell’abisso, il documentario di Berg rivela così come nell’animo di Buckley convivessero una luce che pervade e un buio che consuma, la grazia più assoluta e il dolore più profondo.

Descrivendo il cinema di Jacques Demy, Serge Daney gli attribuiva una «malinconia istantanea […] come un’ombra» (Daney 1993, p.102), evidenziando così il carattere indissolubile del legame addirittura ontologico esistente a suo parere tra la levità quasi fanciullesca propria dell’opera del regista e la sua “istantanea”, appunto, “malinconia”. La felice locuzione di Daney dà corpo ad una rappresentazione icastica del rapporto che si istituisce tra questi due poli, che non costituirebbero dunque due manifestazioni contrapposte di un medesimo sentire ma due elementi coalescenti, legati da una relazione di tipo indessicale. Come un corpo che si immerge libero nella luce del sole non può prescindere dal proiettare dietro o sotto di sé una sagoma oscura, così l’incanto e l’abisso procederebbero sempre congiuntamente, senza soluzione di continuità, costituendo l’uno la diretta implicazione dell’altro. L’esperienza umana non concepisce, infatti, a ben vedere, la possibilità di scindere questi due poli che altro non sono che due differenti modalità costitutive dell’umano, due stati diversi ma co-implicati di un’unica essenza.

Indagando, discretamente ma in profondità, le tante ferite che hanno segnato la breve esistenza dell’artista, il documentario di Amy Berg ne rintraccia le oscure radici per celebrarne i frutti rifulgenti. Leonard Cohen, così caro al protagonista del film, cantava che “there is a crack in everything, that’s how the light gets in”: Jeff Buckley, pare allora dirci continuamente il documentario, è proprio questo. Lui è quella crepa, la sua esperienza umana è l’esperienza di una lacerazione, di una rottura, che si configura sempre anche, però, come un varco o uno spiraglio; Buckley è allora quella crepa, certo, ma è insieme, al tempo stesso, quella luce che in essa sempre si insinua. Se il film di Berg penetra, come si è detto, – pur pudicamente – le ferite dell’artista non lo fa dunque per un morboso desiderio di intromissione nel privato ma perché è proprio dentro quegli strappi, attraverso quelle fratture, che si fa spazio il suo fulgore. Non è infatti nonostante il dolore ma tramite di esso, abitandolo ed accogliendolo, che Buckley raggiunge quella “grazia” che dà il titolo al suo primo, leggendario, album e che imbeve impregnandola tutta la sua musica.

Una musica che, e il film non fa che dircelo fin dai suoi primissimi istanti, non costituisce una parte della vita di Buckley ma coincide – di fatto – con quella vita. Così, come la presenza costante, totalizzante, della musica (quella che lui amava e quella che faceva), che satura il racconto del documentario, la sistematica ingerenza di esso nella vicenda personale dell’artista ha l’obiettivo di mostrare plasticamente la radicale inscindibilità tra la sua vita e la sua arte, la quale costituisce in effetti il suo proprio modo di respirare col mondo o, ancor meglio, di far respirare il mondo attraverso di sé. Tramite la musica, infatti, Buckley riesce ad aderire tanto profondamente al resto dell’esistente da divenirne per così dire una fibra: la musica di Jeff Buckley – è questo, in fondo, l’assunto che sta al cuore del documentario – non è un oggetto a sé, ma è la materia viva, vibrante, del suo sentire, ne è l’estrinsecazione. È il suono arcano del mondo che si fa udibile, in tutto il suo dramma e in tutta la sua grazia, per mezzo di un corpo – quello dell’artista – che lasciandosi attraversare si fa strumento e che vibra con esso per farsi tramite della sua manifestazione sensibile. Sono il dolore e la gioia del vivente che si fanno suono attraverso di lui, è la forma fenomenica del suo divenire-mondo. Nella celeste limpidezza dei suoi sussurri come nei graffi struggenti delle sue grida, dunque, noi sentiamo il mondo, con le sue laceranti asperità e le sue luminose punte di meraviglia. È per questa ragione, forse, in definitiva, che la sua musica non ha mai smesso di parlarci e che oggi, quasi trent’anni dopo la sua tragica scomparsa, sentiamo ancora che “it’s not over”: It’s never over, Jeff Buckley.

Riferimenti bibliografici
S. Daney, L’exercice a été profitable, Monsieur, P.O.L., Paris 1993.

It’s never over, Jeff BuckleyRegia: Amy Berg; fotografia: Alex Takats, Curren Sheldon, Wolfgang Held, Jenna Rosher; montaggio: Brian Kates, Stacy Goldate; interpreti: Jeff Buckley; produzione: Magnolia Pictures, HBO Documentary Films, Topic Studios and Fremantle a Disarming Films Productions; origine: Stati Uniti; durata: 106′; anno: 2025.

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