L’esperienza di Riace, fiorita intorno alla figura emblematica di Mimmo Lucano, può essere letta come “l’invenzione di nuovi modi di applicare il diritto”, come efficacemente sintetizzato da Gianluca Solla in una recente intervista. Da questa prospettiva, per uscire dall’impasse di un’applicazione asettico-burocratica della Legge, tra le cause della crisi del “politico” nella contemporaneità, sarebbe auspicabile la disseminazione di modelli di creatività politica capaci di ridisegnare plasticamente il diritto, immaginando, per così dire, “dieci, cento, mille Riace”. In questo senso, può essere prezioso rileggere un breve testo di Gilles Deleuze del 1955, Istinti e istituzioni (2018).
Si tratta in effetti di una cernita, a cura di Deleuze, di contributi (filosofici, psicologici, antropologici, sociologici, etologici, etc.) incentrati sul rapporto tra le disposizioni istintuali dell’uomo (le sue “tendenze”) e la sua vocazione alla creazione di istituzioni. Deleuze riprende un’intera tradizione che dai primi del Settecento si proietta fino alla metà del Novecento, evocando, tra gli altri, Hume, Bergson, Freud, Marx, Malinowski, Lévi-Strauss, Frazer, Cuvier e Fabre. Questa “galleria” di autori costituisce, da un lato, un collage ad uso degli allievi liceali di Deleuze – che, lo ricordiamo, insegna dal 1948 al 1957 nei licei di Amiens, Orléans e Parigi, prima di giungere alla Sorbonne –, dall’altro, un primo esempio del deleuziano “apprendistato in filosofia” (secondo la felice definizione di Michael Hardt), cioè la rivisitazione di una tradizione per estrarne ciò che è vivo e adattarlo ai propri scopi.
Come messo giustamente in evidenza da Ubaldo Fadini nella prefazione all’edizione italiana del volume (riproposta da Mimesis nel 2018), Istinti e istituzioni prende l’abbrivio dalla visione innovativa di Hume rispetto alla vexata quaestio del rapporto natura-cultura: Hume ripensa in termini unitari storia e biologia, istinto ed educazione, affidando agli artifici culturali il compito di realizzare pienamente la natura, piuttosto che di coartarla. La cultura diviene così non tanto una deviazione della natura, quanto una sua “perversione” creativa, nei termini di una fruttuosa ibridazione, di un’estensione artificiale del corredo biologico: «Ciò che l’artificio assicura alla simpatia e alla passione naturali è un’estensione in cui esse potranno esercitarsi, svilupparsi naturalmente, ma liberate dai loro limiti naturali» (Deleuze 2012, p. 41).
L’estensione delle passioni, del tratto “istintuale”, ad opera della giustizia, del tratto “istituzionale” (ibidem), non può non ricordare il concetto freudiano di plasticità della pulsione, se non il significato stesso del pulsionale: non esiste istinto che non sia perverso, dunque rimodellato dalla cultura, e polimorfo, ossia sottoposto a uno sforzo infinito di riconfigurazione plastica. Questo sforzo infinito di liberazione operato dalla cultura sulla natura prende le forme dell’estensione e dell’artificializzazione, anticipando in qualche modo una dimensione macchinica (sistemica e anti-dualistica) che sarà propria del Deleuze anti-edipico.
È in questa cornice che Deleuze supera l’idea contrattualistica per cui la società si fonderebbe sulla legge, intesa come limitazione negativa della natura: il contrattualismo pone infatti il positivo in una serie di diritti naturali delimitati da un contratto sociale. Al contrario, per Deleuze attraverso Hume (o per Hume attraverso Deleuze), il positivo sta dalla parte della società, della creatività dell’istituzione che supera le deficienze naturali, offrendo una differente articolazione dei bisogni (Deleuze 2018, p. 30). L’istituzione diventa quindi un mezzo di soddisfazione del bisogno, sempre però indiretto e obliquo. Si legge infatti nell’introduzione che Deleuze scrive per la sua “antologia” del ‘55: «La tendenza è soddisfatta attraverso mezzi che non dipendono da essa. Inoltre, non lo è mai senza essere costretta o vessata e trasformata, sublimata. Fino a rendere possibile la nevrosi. […] il bisogno non trova nell’istituzione che una soddisfazione indiretta, “obliqua” […]» (ibidem).
Non è forse questo destino obliquo di sviamento lo stesso del desiderio ruotante attorno all’oggetto piccolo (a) che ne è causa? La soddisfazione del bisogno non è mai puntuale, perché il détour della pulsione è sostanzialmente infinito, come le modalità di realizzazione della giustizia, ossia di invenzione di istituzioni che vengano incontro alle necessità perennemente eccedenti dell’umano. Ciò significa, come Deleuze acutamente nota, che «l’uomo non ha istinti, egli realizza delle istituzioni. L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie» (Deleuze 2018, p. 32). Sostanzialmente, la possibilità di soddisfazione diretta del bisogno attraverso l’istinto appartiene al passato filogenetico dell’uomo, al mondo specifico dell’animale, antecedente alla creazione da parte dell’uomo di mondi originari (vedi in tal senso la premessa al volume di Katia Rossi).
Il carattere innaturale del soddisfacimento istituzionale fa dunque il paio col tratto positivo del desiderio, che, fin d’ora, per Deleuze “non manca di nulla”, in contrapposizione al tratto mancante di un desiderio articolato con la Legge: troviamo qui in nuce il cuore dell’opposizione Deleuze/Lacan dei primi anni settanta. In altri termini, preferire l’istituzione alla Legge significa sbilanciare il desiderio sul versante del godimento pulsionale per sottrarlo al tratto negativo della mancanza. Così come il desiderio non è frutto del bisogno ma lo reinventa, lo perverte, a conti fatti lo produce, allo stesso modo l’istituzione non può per Deleuze essere spiegata dall’istinto: «Il negativo non spiega il positivo» (ivi, p. 30). L’“inutilità” dell’istituzione, il suo eccedere il bisogno fino a renderne la soddisfazione irriconoscibile, dipende dal suo tratto inconscio, dal suo carattere di produzione desiderante. Viene da sorridere pensando a certe interpretazioni politiche dei bisogni necessari, che vorrebbero rendere accessibili tramite il sussidio statale (il cosiddetto “reddito di cittadinanza”) solo determinati beni, escludendo il superfluo, senza tener conto che il bisogno umano tende inevitabilmente all’inutile, e che in ciò consiste il suo aspetto emancipatorio.
Di fronte alla variazione ambientale, il desiderio potrà sempre dire: “non è questo”, e cercare dell’altro. In questa continua reinvenzione della soddisfazione, si situa il problema della sintesi tra tendenza e oggetto: dove si fisserà di volta in volta il desiderio? In quale abitudine, in quale ripetizione di godimento, in quale rituale? Questa ricerca di sintesi è il problema dell’adattamento, comune all’istinto e all’istituzione: una sintesi intelligente è infatti possibile perché esiste un margine di perfezionamento. Nell’istinto, la sintesi si trova a cavallo tra causalità specie-specifica e abitudine contatta dall’individuo: si fa qui notare che, con Guillaume, Deleuze evidenzia come l’opposizione tra istinto e abitudine non sia profonda, e ciò è in linea con la mancata cesura tra natura e cultura. Nell’istituzione, la sintesi ovviamente sviluppa appieno il suo potenziale tramite un’intelligenza sociale che si libera dal determinismo della specie e sostituisce ad esso un sistema rituale di anticipazione e di previsione articolato nella ricchezza multiforme del simbolico, ossia della sublimazione creativa della pulsione.
Parafrasando il Žižek di Organi senza corpi possiamo affermare che, nel passaggio senza fratture dall’istinto all’istituzione, dalla tendenza alla sua infinitamente sviata messa in atto, realizziamo il salto dalla condizione in cui “tutto ha un significato sessuale” a quella in cui il sesso è una “allusione universale” (Žižek 2012, p. 182). Vale a dire, la pulsione, la tendenza, il bisogno, pur essendo ubiqui, non possono essere approcciati direttamente, pena lo scontro con il trauma del Reale. Dal momento in cui l’uomo è segnato dal taglio del significante, il simbolico è l’unico modo di entrare nella sessualità, ossia di venire incontro al carattere inutile del nesso che si crea tra desiderio e oggetto. È in questa accezione “erotizzata” che dobbiamo leggere il legame “inutile” tra tendenza e bisogno. «Si entra nella sessualità […] quando cominciamo a godere proprio della ripetizione “disfunzionale” di questo gesto e con ciò sospendiamo il suo servire a qualcosa» (ivi, p. 180).
Il tratto perverso della sessualità è comune tanto all’arte quanto al gioco, tanto alla tecnica quanto all’istituzione. Si tratta della torsione dell’istinto nell’abitudine, a patto di non considerare la cultura prodotto deterministico della natura, ma di vederla come un effetto di superficie, che, pur essendo frutto delle concatenazioni materiali, sprigiona dei sensi ulteriori, dei co-sensi “positivi” del tutto emancipati dall’accezione negativa del vincolo all’utile. L’istituzione veramente creativa inventa un nuovo diritto in quanto si libera dal riferimento lineare al bisogno e immagina percorsi non-lineari, deviazioni che sono allo stesso tempo un détour del desiderio e una sintesi intelligente del bisogno e delle sue soddisfazioni più impensate.
Qualche giorno fa la Cassazione si è pronunciata a proposito delle accuse mosse a Lucano riguardo ai presunti illeciti commessi nelle sue funzioni di sindaco di Riace, smontando l’impianto di quanto contestato dalla procura e sottolineando il carattere immotivato e vessatorio delle misure comminate a Mimì Lucano dai magistrati locresi e reggini (prima i domiciliari e poi il divieto di dimora a Riace). L’attacco portato avanti contro l’esperienza di Riace, cavalcato dal ceto politico attualmente dominante nel nostro paese, dimostra il carattere rivoluzionario di un utilizzo nuovo e impensato dell’istituzione, tale da scatenare la macchina da guerra reazionaria contro un piccolo borgo della Locride, dove è stato possibile fare l’impossibile.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Istinti e istituzioni, Mimesis, Milano-Udine 2018.
G. Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, Cronopio, Napoli 2012.
S. Žižek, Organi senza corpi. Deleuze e le sue implicazioni, La scuola di Pitagora, Napoli 2012.