A questo diktat resta fedele in ogni pagina L’istante (pubblicato da Pendragon nel 2018), il bel libro di Laura Fidaleo, classe 1980, vincitrice del Premio Bagutta nella Sezione Opera Prima nel 2013 con la raccolta di racconti Dammi un posto tra gli agnelli (Fidaleo 2012). È un diktat feroce, e ugualmente salvifico, che permette alla scrittura di tessere una tela resistente, abbastanza forte da rendersi arma indagatrice di quella paura primordiale che abita ogni uomo, ogni anima. «Il Labirinto presenta difficoltà peggiori della morte, solitudini più fatali di una battaglia. Ho paura di perdermi» recita l’epigrafe tratta da Chi non ha il suo Minotauro? di Marguerite Yourcenar (1963). Il Minotauro è la belva da affrontare, è il nemico in agguato, è Mangiafuoco; la scrittura è il Golem, è un servitore ubbidiente di forza e capacità straordinarie, è Arianna, è il Grillo parlante e insieme Geppetto, è l’asso nella manica che permette di seguire il filo, che concede all’io di sentirsi abbastanza forte da affrontare questa paura e cercare di capirla, senza perdersi.
L’immaginario del mito e della fiaba non è lontano da questo libro, soprattutto per l’atmosfera onirica e, sotto alcuni aspetti, infantile, quando con questo termine s’indica la purezza. I protagonisti hanno nomi evocativi, biblici o fantastici, come Poplia, Ester, Christos, Gesualdina, Teodora, La Clelia, Oh Picador, Ape, alcuni sono quasi un balbettio. Quella di L’istante è una lingua che vuole nominare il mondo, nell’unicità della biografia insieme allo stupore dell’infanzia, perché «i bambini danno senso alle cose, con quei buchi sulle nocche, la carne tenera dei polpacci, la delega ufficiale per la vita». I nomi dei personaggi sono fiabeschi e insieme quasi storpiati, come quelli che danno i bambini. In L’istante si delinea un universo familiare che l’Io cerca di comprendere e fare suo, tentando di appropriarsene e cancellare la paura: in questo caso, quella di perdersi.
L’istante potrebbe essere un sogno lungo 137 pagine in cui «noi siamo qui, dove il tempo a piccoli quanti scintilla»; è un romanzo emotivamente intenso da leggere e molto difficile da scrivere, perché qui si scrive la scrittura che è vita. La parola scritta è parola autobiografica, anzi, è solo parola autobiografica, e questo le dà una forza tutta peculiare. È una potenza diversa da quella che si ritrova, ad esempio, nei libri di Annie Ernaux. In L’istante l’analisi storico-sociologica e la scrittura dal ritmo volutamente cronachistico, sempre nel rispetto della Storia che tanto cara è al rigoroso lavoro di Ernaux, qui non si ritrovano, eppure la scrittura trova altre risorse per narrare l’autobiografia, come il pastiche dei generi, ad esempio. Laura Fidaleo attinge a tutte le forme del linguaggio, non per puro divertissement, ma per ordinare, trovare la forma più adeguata all’espressione dell’emotività familiare, alla profondità delle relazioni strutturali del mondo affettivo. Sorelle, madri, padri, mariti, mogli, fratelli, nonni.
Il collage di generi che prendono forma in L’istante è funzionale alla narrazione, come se la scrittura legata al mondo familiare avesse la necessità di attingere a più linguaggi per strutturare l’emozione letteraria. E così il teatro, segni o simboli matematici come «5+5+5 = zia finisce un discorso serio con “ma lo sai? Non ho il rosmarino per il pollo”», il cruciverba, la filastrocca, «Ma l’indiano bello col chiodo nel cervello / la cavalla a Piero gli portò / ohibò», la forma enciclopedica o il linguaggio scientifico: tutte le forme e i format della scrittura vengono chiamate in causa alla ricerca di quella più esauriente per esprimere questa girandola di persone e affetti.
Gli episodi e le dinamiche familiari, i personaggi, s’identificano ad esempio con le qualità di piante, fiori, funghi, come ad esempio la rafflesia, che ha «i fiori più grandi del mondo, possono raggiungere un diametro di 105 centimetri e pesare oltre sette chili», i mixomiceti, «a metà fra piante e animali», le leguminose «che hanno fiori a cinque petali e producono un frutto allungato, detto legume», le trombette dei morti, «funghi piuttosto diffusi nei boschi italiani», o i licheni «associazioni stabili di un fungo e un’alga».
Ma questo universo familiare così circoscritto rimbomba anche di echi mitici, in una catena naturale e primordiale: «Discendiamo da antenati che non sono stati necessariamente uomini, ma molluschi, iene, rettili, dinosauri, muffe, semidei o leggende». Fa capolino in questo romanzo anche il dialetto, puro o filtrato nella sonorità linguistica dell’«accento provinciale di una regione del Centro Italia, con l’alterazione tipica del dialetto che va adattandosi in maniera goffa alla lingua nazionale».
L’Io si fa scudo di questo pastiche di generi e di forme di scrittura, divenendo marmoreo; è un Io che non si lascia intimidire dalla sua stessa paura, per quanto ingombrante, lapidaria e indomita possa essere. È un Io fragile che diviene indistruttibile, è un Io anche arrabbiato, che al corpo e al linguaggio trasmette la sua rabbia nella lotta improba degli affetti:
Succede così con la rabbia. Fa venire mal di testa e mal di denti. A volte pare che caschi la fronte, che si spostino le parole in bocca. Che facciano loro quel sapore amaro salito su dalla gastrite. O dalle dimissioni della propria esistenza. O dalle dimissioni da te, da voi, da chiunque c’era un tempo e adesso non c’è più, tanto da non esserci mai stato.
E ancora, «abbiate paura della parola verità, perché vi censurerete. La verità è durissima. È bile. Sapessi ancora rigurgitare a comando sarebbe vomito. Gastrite e reflusso. La presunzione di verità mi si confonde col corpo». E così, acutamente, ciò che provoca la lettura di L’istante è l’emozione cristallina che la letteratura e i suoi mondi siano vivi, proprio «in questo mentre».
Riferimenti bibliografici
L. Fidaleo, Dammi un posto tra gli agnelli, Nottetempo, Roma 2012.
Id., L’istante, Pendragon, Bologna 2018.